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Cina e COVID: la zappa sui piedi

 

di Raffaelle Citterio

 

Con grande apparato mediatico, a metà gennaio è stata diffusa la notizia di una missione OMS in Cina, composta da scienziati di varie nazionalità, allo scopo di indagare sulle origini della pandemia da COVID-19, proprio lì dove tutti sospettano sia iniziata: Wuhan. Erano previste tappe in diversi ospedali, laboratori e mercati. Da parte loro, le autorità cinesi si erano impegnate a collaborare pienamente, mettendo a disposizione tutti i registri scientifici e facilitando incontri faccia a faccia con studiosi locali. La missione era stata preceduta da un lungo negoziato – non esento da intoppi – fra la Cina e l’agenzia sanitaria dell’ONU.

Per la Cina, le indagini dell’OMS a Wuhan erano politicamente molto sensibili. Pechino, infatti, è sospettata di avere gestito male la fase iniziale dell’epidemia, e addirittura di avere fabbricato il virus, accuse sempre respinte dalle autorità comuniste. La missione dell’ONU era un’opportunità storica per chiarire la situazione. Per la Cina, una “formula assolutoria” avrebbe significato un gigantesco trionfo diplomatico.

Le difficoltà sono iniziate già durante i negoziati, definiti dal Segretario generale dell’OMS, Tedros Ghebreyesus, “schietti” (invece del tradizionale “schietti e amichevoli”). Non sono poi mancate le polemiche politiche. La Cina aveva avvertito gli Stati Uniti di non politicizzare la pandemia, dopo che la portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki, aveva chiesto agli esperti dell’Oms giunti a Wuhan di “andare a fondo” nella ricerca sulla diffusione del virus.

Le cose, però, non sono andate come sperato dai mandarini di Pechino.

Già durante la permanenza della missione in territorio cinese, le poche dichiarazioni filtrate, apparentemente positive, denotavano un forte disagio sottostante. Mentre alcuni membri auguravano alla missione “un esito felice”, altri la definivano “un grande passo avanti”. Era ovvio che non si volesse irritare la dittatura comunista. Qualche parola di fastidio, però, è finita per filtrare. Lo scienziato Peter Daszak ha parlato di “discussioni schiette” con colleghi locali. Un altro si è lamentato del “programma di contatti ancora opaco”. Lo stesso Tedros Ghebreyesus si è dichiarato “irritato”.

Più passavano i giorni, più crescevano le voci discordanti sui metodi e sui risultati.

La bomba, però, è esplosa quando i membri della commissione sono tornati a casa. Liberi dalle grinfie di Pechino, hanno pubblicamente denunciato che le autorità cinesi “hanno rifiutato [di condividere, ndr] alcuni dati chiavi” per le loro indagini. Uno dei membri della squadra, il microbiologo Dominic Dwyer, ha denunciato che a fronte della domanda di ottenere i dati grezzi sui pazienti dei primi casi, agli esperti sarebbe stato dato dai cinesi solo un riassunto. Lo stesso capo della missione, Peter Ben Embarek, ha espresso la sua “frustrazione” per la mancanza di accesso alle informazioni richieste.

In dichiarazioni alla CNN, Embarek ha dichiarato che i numeri che la missione OMS ha riscontrato a Wuhan non corrispondono a quelli diffusi dal Governo. Secondo lui, la pandemia era già fuori controllo nel dicembre 2019. Embarek non solo critica la mancanza di trasparenza delle autorità cinesi, ma anche la loro scioltezza nel manipolare i dati scientifici. Per esempio, di fronte a 72.000 contagiati a ottobre, le autorità cinesi ne hanno riconosciuto come pazienti COVID appena 92. “Vorremmo sapere con quale criterio sono passati da 72mila a 92”, ha dichiarato non senza ironia Embarek. Altrettanto schietto, in dichiarazioni all’agenzia Reuters, anche Dominic Dwyer ha accusato la Cina di non divulgare i dati della pandemia “né allora né adesso”.

Anche dagli Stati Uniti sono giunte pesanti critiche. Un portavoce ha espresso “preoccupazioni” sull’esito dell’indagine condotta in Cina e “interrogativi” su come sia stata portata a termine, evocando lo spettro di “interventi o alterazioni” da parte del governo cinese. Per bocca del consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, l’Amministrazione Biden ha chiesto a Pechino che “renda disponibili i suoi dati fin dai primi giorni dell’epidemia”.

Alla fine, il Segretario generale dell’OMS è stato costretto a dichiarare che “tutte le ipotesi rimangono aperte e richiedono ulteriori analisi e studi”. Quindi, siamo in alto mare, con tutti i sospetti sulla Cina non solo non fugati, ma anzi rafforzati. Altro che sentenza assolutoria!

Mentre la Cina faceva così una figuraccia planetaria, un altro scandalo scoppiava tra le mani di Xi Jinping.

Da qualche tempo i virologi s’interrogavano su alcuni paradossi della pandemia da COVID 19 come, ad esempio, quello cileno. Il Cile è il terzo paese al mondo per numero di vaccinati in proporzione alla popolazione. Eppure, è alle prese con una terza ondata che ha sorpreso gli esperti, facendo saltare in aria tutte le proiezioni. Come mai? La risposta potrebbe trovarsi in alcuni studi che stanno venendo adesso alla luce sull’efficacia del vaccino cinese, il più usato in America Latina. Supera appena il 50%! Niente a confronto, per esempio, dell’efficacia del vaccino Pfizer BioNtech, che è del 97%.

Il campanello d’allarme è suonato in Brasile. Un ampio studio condotto da un pool di specialisti e pubblicato dall’Agência Nacional de Vigilância Sanitária, ha rivelato che l’indice di efficacia del vaccino cinese è del 50,38%, appena sopra il limite OMS per essere considerato un vaccino, cioè il 50%.

Costretta dalla cattiva pubblicità, la Cina ha dovuto fare un mea culpa. Gao Fu, direttore del Centro nazionale di controllo e prevenzione delle malattie, ha dovuto ammettere: “Il nostro vaccino non ha un indice di protezione molto elevato”.