«Via pulchritudinis» e spiritualità della Contro-Rivoluzione.
Una nuova raccolta di testi di Plinio Corrêa de Oliveira
di Massimo Introvigne
[Dalla Rivista "Cristianità" n. 351]
La Chiesa, ci ha ricordato Benedetto XVI nel Discorso alla Curia romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi del 22 dicembre 2008, ormai un consueto appuntamento annuale in cui il Papa ricorda i temi più significativi del suo magistero durante l’anno trascorso, è affezionata alle «date incisive», agli anniversari. Se alcune sono comuni alla Chiesa universale – e fra queste Benedetto XVI ha ricordato i centocinquant’anni dalle apparizioni di Lourdes del 1858, i cinquanta dalla morte di Pio XII (1876-1958) e i quaranta dall’enciclica del 1968 Humanae vitae di Paolo VI (1897-1978), che segna pure un «Sessantotto nella Chiesa», l’inizio di un oscuro periodo di contestazione del magistero, non è certamente illecito fare memoria di date che si riferiscono alla particolare sensibilità di una scuola di pensiero o di spiritualità. Così il Papa stesso ha voluto ricordare nel corso del suo viaggio in Francia, nell’omelia del 15 settembre nella Basilica di Lourdes, dom Jean-Baptiste Chautard O.C.S.O. (1858-1935) – nel centocinquantenario della nascita – la cui opera «L’anima di ogni apostolato» ha formato generazioni di cattolici e che Benedetto XVI ha voluto raccomandare a ogni «cristiano fervoroso».
Chi s’ispira al pensiero della scuola cattolica contro-rivoluzionaria nel 2008 ha ricordato il centenario della nascita del pensatore e leader cattolico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), che di quella scuola è stato il più significativo esponente nel secolo XX. Nel 2009 cade il cinquantesimo anniversario della prima pubblicazione – sul numero 100 della rivista Catolicismo – dell’opera principale di Corrêa de Oliveira, «Rivoluzione e Contro-Rivoluzione». Cadono anche il cinquantesimo anniversario della prima edizione di «Pour qu’Il Règne» di Jean Ousset (1914-1994), l’opera probabilmente più significativa prodotta nel secolo scorso dalla scuola contro-rivoluzionaria francese (che per contesto, storia e peripezie resta peraltro diversa e non assimilabile rispetto al pensiero e all’azione di Corrêa de Oliveira), e il venticinquesimo della pubblicazione dell’esortazione apostolica post-sinodale Reconciliato et Paenitentia di Giovanni Paolo II (1920-2005), un documento del magistero pontificio che sembra tenere conto in modo particolare dell’interpretazione della storia dell’Occidente proposta da questa scuola.
In effetti, la scuola contro-rivoluzionaria è soprattutto nota per la sua dottrina e per la sua interpretazione teologica e filosofica della storia. Ha pure una sua specifica spiritualità? Se si guarda alle figure più importanti della scuola nel XX secolo una prima risposta non può che fare riferimento alla spiritualità di sant’Ignazio di Loyola (1491-1556) e ai suoi Esercizi Spirituali. L’incontro con le Congregazioni Mariane è decisivo per la formazione del giovane Corrêa de Oliveira e segna tutta la sua vita, così come l’ambiente francese in cui nasce «Pour qu’Il Règne» di Ousset non sarebbe neppure potuto sorgere senza l’attività del religioso spagnolo Francisco de Paula Vallet C.P.C.R. (1883-1947) e della casa da lui fondata a Chabeuil per dettare a migliaia di persone gli Esercizi, in una versione abbreviata a cinque giorni (rispetto al mese originario di sant’Ignazio) particolarmente adatta ai laici. Da sant’Ignazio e dagli Esercizi l’ambiente contro-rivoluzionario – in Francia come in Brasile e altrove – apprende una spiritualità che fa costante riferimento a quelle che la devozione popolare francese chiama les trois blancheurs: l’Eucarestia, l’Immacolata e il Papa. Qui, in fondo, tutto si riassume, e ben poco d’altro ci sarebbe da dire.
E tuttavia dell’altro c’è. A Dio si arriva attraverso il vero, il buono e il bello. La Rivoluzione – intesa dalla scuola contro-rivoluzionaria come processo di attacco al cristianesimo che percorre tutta la storia dell’Occidente moderno – ha reso particolarmente difficile, tanto più per i laici immersi nel mondo, cogliere il vero e il buono. Rimane il bello, ed è significativo come la scuola contro-rivoluzionaria del XX secolo abbia insistito sulla via pulchritudinis, la via del bello, non certamente come l’unica via spirituale del nostro tempo ma come una via specialmente adeguata ai laici nell’epoca della Rivoluzione. La Via pulchritudinis è anche il titolo del documento finale dell’Assemblea plenaria del 27-28 marzo 2006 del Pontificio Consiglio della Cultura: un documento la cui consonanza – quanto all’architettura e allo schema generale – con questo aspetto della spiritualità di Corrêa de Oliveira è davvero notevole.
Uno schema simile (anche se certamente non identico, giacché anche qui giocano le differenze di contesto e di storia) è stato proposto nell’ambiente contro-rivoluzionario francese cui ho fatto riferimento, per esempio nel volume del 1971 di Ousset «À la découverte du Beau» (Montalza, Parigi 1971) e nelle opere dei fratelli Henri Charlier (1883-1975) – da molti considerato il maggiore scultore di soggetti religiosi del secolo XX, ma anche autore di opere dottrinali di notevole pregio – e André Charlier (1895-1971), preside dell’École des Roches di Maslacq – la più prestigiosa scuola privata in internato della Francia fin dal XIX secolo – che trasforma, durante il periodo della sua presidenza, in un centro di formazione di una élite cattolica e contro-rivoluzionaria (vi si forma, tra l’altro, anche dom Gérard Calvet, 1927-2008, futuro fondatore dell’abbazia Sainte-Madeleine du Barroux). In questo caso, peraltro, il rapporto con il documento del Pontificio Consiglio della Cultura è dichiarato, dal momento che è esplicitamente citata come fonte (cfr. nota 9 dello stesso documento) la filosofia dell’arte di padre Marie-Dominique Philippe O.P. (1912-2006), le cui relazioni con questo ambiente francese sono state numerose e profonde.
La possibilità di studiare i rapporti fra la scuola contro-rivoluzionaria e la via pulchritudinis si arricchisce ora di una preziosa raccolta di testi in gran parte inediti di Corrêa de Oliveira, raccolti e coordinati da una Commissione di redazione presieduta da Paulo Corrêa de Brito Filho e che ha visto come redattore del volume Leo Daniele, come revisore Antonio Augusto Borrelli Machado e come ricercatore José Antonio Ureta – senza dimenticare il progetto grafico di Luis Guillermo Arroyave, tanto più che il volume è arricchito da numerose immagini e fotografie. Il testo, «A Inocência primeva e a contemplação sacral do universo no pensamento de Plinio Corrêa de Oliveira» (Artpress, San Paolo 2008: le successive citazioni senza altra indicazione e precedute dal riferimento “p.” sono tutte tratte da questo testo), si presenta come il primo frutto dei lavori dell’Instituto Plinio Corrêa de Oliveira, presieduto dal cugino primo e stretto collaboratore del pensatore brasiliano Adolfo Lindenberg. Dal punto di vista filologico l’operazione condotta da Daniele non è stata facile. Corrêa de Oliveira ha infatti lasciato numerosi inediti, e un numero ancora maggiore di conversazioni e riunioni le cui trascrizioni rivelano lo stile colloquiale.
Come ricorda nella prefazione Corrêa de Brito Filho, «se Aristotele pensava camminando [di qui, naturalmente, l’appellativo di “peripatetica” dato alla sua scuola], Plinio Corrêa de Oliveira pensava conversando» (p. 14). A chi intenda raccoglierne gl’inediti si pone dunque la scelta se sottoporli a una massiccia opera di revisione editoriale ovvero pubblicarli come sono. Nel secondo caso, filologicamente più corretto, la semplice pubblicazione cronologica porterebbe a opere immense fruibili solo da pochi specialisti. Di qui la scelta d’iniziare a pubblicare brani di Corrêa de Oliveira ordinandoli per temi, nello stesso tempo distinguendo chiaramente attraverso l’uso di vari tipi di virgolette quanto viene in effetti dal pensatore brasiliano e quanto è stato aggiunto, coordinando testi e discorsi diversi, dai curatori. Ne risulta un’opera che – se non dispensa lo specialista dal risalire alle fonti e agli archivi – trasmette però in modo fedele l’insegnamento di Corrêa de Oliveira su temi che interessano non solo agli studiosi, ma alla generalità dei fedeli cattolici del nostro tempo. La cura del testo e lo sforzo per coordinare i materiali raccolti in modo che delineino un percorso rappresentano anche, per così dire, uno stadio ulteriore rispetto alla pur utile raccolta di «brani scelti» di Corrêa de Oliveira su temi analoghi pubblicata nel 1997, sempre a cura di Leo Daniele, con il titolo «O Universo é uma Catedral» (Edições Brasil de Amanhã, San Paolo), cui si erano affiancate raccolte analoghe relative ad altri temi.
La via pulchritudinis non è l’unico tema del volume appena pubblicato, ma vi ha certamente un ruolo principale. Il riferimento a una inocência primeva nella prima parte dell’opera è in fondo una raccolta di riflessioni che, come spesso accade nella storia del pensiero cattolico, un maestro di dottrina e di vita spirituale sa trarre da un singolo insegnamento del Vangelo: «Se non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18, 3). L’«innocenza primeva» è precisamente lo stato del bambino così com’è descritto nel Vangelo di Matteo: una capacità genuina di stupirsi di fronte al creato non ancora contaminata dall’abitudine al peccato. Il Signore ci dice che è obbligatorio per tutti, a pena di non entrare nel regno dei cieli, «diventare come i bambini». Che cosa significa? Di certo, riflette Corrêa de Oliveira, non si tratta di diventare, da adulto, «un ingenuo, uno spirito infantile, un uomo fuori della realtà» (p. 45). L’«innocenza» dei bambini – e di chi «diventa come i bambini» - è l’orientamento al bello, al vero e al buono che coincide con la «nobiltà d’animo» (p. 47).
Da questo punto di vista «l’innocenza non è un privilegio dell’infanzia e può prolungarsi fino alla fine della vita» (p. 45). È la capacità di ristabilire il contatto con i «modelli ideali» (ibid.) che, dopo l’infanzia, rimangono in noi come sommersi, ma possono riemergere. Corrêa de Oliveira ci propone di meditare sulla leggenda bretone della cattedrale di Ys, la cathédrale engloutie (che molti conoscono dall’omonimo preludio musicale di Claude Debussy, 1862-1918) sommersa da secoli dalle acque del mare ma di cui i pescatori talora odono il suono delle campane, fatte risuonare dagli angeli, preludio al suo futuro trionfale riemergere dalle acque. «Non vi è chi non percepisca la straordinaria bellezza, la straordinaria poesia di questa leggenda. L’innocenza primeva non è qualcosa che il diavolo riesca a sradicare interamente dalla nostra anima. Vi resta come una cathédrale engloutie, una cattedrale sommersa dalle acque del peccato ma che ancora esiste in noi. Di tanto in tanto le campane di questa innocenza rintoccano, e ci fanno sentire come una melodia interiore, una nostalgia, una speranza […]. Il problema della restaurazione dell’innocenza dei bambini nell’età adulta – usando l’immagine della cathédrale engloutie – è fare sì che la cattedrale sepolta, cioè l’innocenza che conserviamo dentro di noi ma nelle acque del peccato, smetta di essere engloutie e venga di nuovo alla luce» (pp. 53-54).
Un «problema», appunto: e di non facile soluzione nel mondo moderno. La via per risolverlo che Corrêa de Oliveira propone parte da dove partono i bambini – la capacità di stupirsi e di meravigliarsi – e percorre la via pulchritudinis. I curatori del volume organizzano le riflessioni del pensatore brasiliano, nella seconda parte del testo, secondo otto «finestre»: l’«ammirazione» – intesa qui come capacità di «ammirare» il creato in atteggiamento di stupore –, che è una vera e propria virtù; l’analisi degli «ambienti, costumi e civiltà» – il titolo di una rubrica che Corrêa de Oliveira tenne per anni sulla rivista Catolicismo e che invitava i lettori alla meditazione a partire da fotografie di persone, paesaggi o opere d’arte –; il senso del simbolismo; la ricerca dell’Assoluto; «la trasparenza e la trascendenza», cioè la capacità delle realtà del creato (naturali o umane) di elevare l’animo verso quanto lo trascende, verso l’alto, il che implica la possibilità di vedere queste realtà come «trasparenti», in quanto consentono di guardare al di là di se stesse; il senso del mistero; il mondo dei possibili (cioè la riflessione, a partire ancora da elementi sia naturali sia artistici, sulle nozioni filosofiche di potenza e di atto e sul fatto che non tutto quanto esiste in potenza viene a esistere in atto); e «la nozione di trans-sfera» (trans-esfera), il luogo dove gli eventi della storia sopravvivono come miti – una parola che il pensatore brasiliano invita peraltro a maneggiare con grande cautela – e influenzano la condotta degli uomini.
Come si è accennato, la tematica è simile – con alcune differenze, che non mancherò di segnalare – a quella del documento del Pontificio Consiglio della Cultura La Via pulchritudinis del 2006. Anche in questo documento si sottolinea come in un’epoca di crisi la via del bello – che non è, ovviamente, l’unica via – può riuscire meno difficile rispetto alla via del vero o a quella del buono, anche se i tre elementi alla fine non potranno che convergere. Nelle parole del teologo svizzero Hans Urs von Balthasar (1905-1988), ricordate dal documento, forse nel mondo moderno «gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica» e il bene «ha perduto la sua forza di attrazione», così che non resta che partire dal bello (II.3: questa e le successive citazioni che iniziano con un numero romano fanno tutte riferimento al documento La Via pulchritudinis). Ancora, il documento propone una citazione dello scrittore e dissidente anti-comunista russo Aleksandr I. Solženicyn (1918-2008) nel suo Discorso per la consegna del Premio Nobel per la Letteratura: «Questa antica triunità della Verità, del Bene e della Bellezza non è semplicemente una caduca formula da parata, come ci era sembrato ai tempi della nostra presuntuosa giovinezza materialistica. Se, come dicevano i sapienti, le cime di questi tre alberi si riuniscono, mentre i germogli della Verità e del Bene, troppo precoci e indifesi, vengono schiacciati, strappati e non giungono a maturazione, forse strani, imprevisti, inattesi saranno i germogli della Bellezza a spuntare e crescere nello stesso posto e saranno loro in tal modo a compiere il lavoro per tutti e tre» (ibid.).
Da un punto di vista sociologico, è certamente vero che oggi grandi folle percepiscono in modo intuitivo la bellezza del cristianesimo e della cristianità attraverso l’architettura, la pittura, la scultura. «Le opere d’arte di ispirazione cristiana, che costituiscono una parte incomparabile del patrimonio artistico e culturale dell’umanità, sono oggetto di una vera infatuazione da parte di folle di turisti, credenti o non credenti, agnostici o indifferenti al fatto religioso. Tale fenomeno è in continuo aumento e raggiunge tutte le categorie della popolazione» (III.2). Ma questa «infatuazione» dev’essere evangelizzata. «La via della bellezza non è priva di ambiguità e di deviazioni» (II.1).
La via pulchritudinis, in effetti, non è una via facile. Non tutto quello che passa per bello lo è veramente. Da una parte, secondo il documento del 2006, «una certa abitudine alla bruttezza, al cattivo gusto, alla volgarità, si vede promossa sia dalla pubblicità sia da alcuni “artisti folli” che fanno dell’immondo e del brutto un valore, al fine di suscitare scandalo» (II.2). Dall’altra, anche di fronte a qualche cosa che è effettivamente bello c’è sempre il rischio di considerare la bellezza delle realtà create come fine a se stessa e di restarvi intrappolati anziché elevare l’anima verso il Creatore: «L’uomo spesso rischia di lasciarsi intrappolare dalla bellezza presa in se stessa, icona divenuta idolo, mezzo che inghiottisce il fine, verità che imprigiona, trappola in cui cade un gran numero di persone, per mancanza di un’adeguata formazione della sensibilità e di una corretta educazione alla bellezza» (ibid.). Ne I fratelli Karamazov dello scrittore russo Fëdor Michajlovič Dostoevskij (1821-1881)«Dmitrij Karamazov confida a suo fratello Alëša: “La Bellezza è una cosa terribile. E’ la lotta tra Dio e Satana e il campo di battaglia è il mio cuore”» (ibid.).
Il testo di Corrêa de Oliveira è una guida per percorrere i sentieri della via pulchritudinis in un’epoca dove si rischia spesso di finire fuori strada. La montagna della bellezza ha infatti diversi sentieri. Questi non sono sullo stesso piano, e tuttavia vi è un interesse a percorrerli tutti. Chi vuole conoscere una montagna non ne esplora solo la vetta, né un pasto completo e raffinato potrebbe ridursi ai soli dessert e champagne. Così dal punto di partenza dello stupore e del senso del meraviglioso – che è già nostalgia dell’Assoluto – si dipartono (è lo schema del documento del 2006, che nel volume del pensatore brasiliano trova appunto significative corrispondenze) tre sentieri che ci fanno esplorare rispettivamente la bellezza della creazione (il mondo minerale, vegetale e animale), la bellezza delle opere create dall’uomo, e la bellezza delle vite esemplari degli uomini e delle donne che hanno corrisposto alla grazia di Dio. Questi sentieri non sono uguali. L’uomo è stato pensato e voluto da Dio come il vertice del creato, e la bellezza della vita di un santo è immensamente superiore alla bellezza di un minerale o di un quadro. Tuttavia nel nostro pellegrinaggio terreno incontriamo l’una e gli altri, e la via pulchritudinis, bene intesa, consiste nell’acquisire l’abitudine alla contemplazione a partire da ciascuna di queste realtà.
Le realtà del mondo minerale, vegetale, animale permettono a loro modo una prima «contemplazione sacrale dell’universo» a partire da quella «ammirazione» che ha a che fare con l’«innocenza primeva» e che permette di vedere nella bellezza delle creature un rimando e un simbolo della bellezza del Creatore. In questo senso le creature belle sono tutte «trasparenti»: uno sguardo formato permette di andare oltre la bellezza creata per meditare sulla creazione e sul suo Artefice. Corrêa de Oliveira mette in relazione queste meditazioni con la quarta delle vie attraverso le quali san Tommaso d’Aquino (1227?-1274) prova l’esistenza di Dio: quella che parte dai gradi di perfezione, e afferma che se esistono nel mondo perfezioni in grado maggiore o minore deve esisterne un grado assoluto, Dio. Il pensatore brasiliano fa notare come la quarta via, a sua volta, presuppone la nozione metafisica di partecipazione che era al centro delle riflessioni del filosofo italiano padre Cornelio Fabro C.S.S. (1911-1995), ed è in intima relazione con la ricerca dell’Assoluto (p. 119).
Così già un minerale può certo essere considerato soltanto nelle sue proprietà chimiche o fisiche, ma deve essere visto dal cristiano come un dono del Creatore e il possibile punto di partenza di una meditazione sull’Assoluto. Corrêa de Oliveira, che amava circondarsi di minerali di cui il Brasile è così ricco, afferma: «Mi ricordo dello sconcerto con cui mi accostavo alle prime lezioni di chimica. Il professore – ahimé, un ateo che ci teneva a presentarsi come tale – diceva: “Uno smeraldo è solo la somma degli elementi x, y e z”, e dava la rispettiva formula chimica, presentandola come la conoscenza più profonda che si potesse avere dello smeraldo» (pp. 101-102). Da un punto di vista materiale il professore aveva ragione: uno smeraldo è un silicato di alluminio e berillio, e vi è certo un interesse a saperlo. Ma da un altro punto di vista il professore ateo si presenta in questa scena come uno stolto, perché nessuno pagherebbe i prezzi correnti degli smeraldi brasiliani – un elemento che, dopo tutto, dovrebbe interessare anche a un materialista – in nome di una mera passione da chimico per i silicati. È evidente che lo smeraldo è apprezzato in quanto simbolo e segno della bellezza. E che per il credente anche lo smeraldo può essere una finestra sulle perfezioni del Creatore.
Il documento del Pontificio Consiglio della Cultura propone una riflessione simile quando, mettendo nello stesso tempo in guardia anche contro un certo ecologismo, propone il sentiero della bellezza che parte dalle realtà naturali, ma afferma: «Sono, tuttavia, numerosi gli uomini e le donne che vedono la natura e il cosmo solo nella loro materialità visibile, universo muto che avrebbe il solo destino di obbedire alle fredde e immutabili leggi fisiche, senza evocare nessun’altra bellezza, ancor meno un Creatore. In una cultura in cui lo scientismo impone i limiti del suo metodo di osservazione fino a farne il criterio esclusivo di conoscenza, il cosmo viene ridotto ad essere soltanto un immenso serbatoio al quale l’uomo attinge […]. Il Libro della Sapienza mette in guardia contro tale miopia che San Paolo denuncia come un “peccato di orgoglio e di presunzione” (Rm 1, 20-23)».
Il Brasile offre a Corrêa de Oliveira numerosi spunti di una meditazione che va dalla bellezza naturale all’Assoluto, dalle maestose foreste agl’innumerevoli uccelli multicolori. Ma anche un semplice gatto offre esempi di una perfezione che nessun artefice umano potrebbe imitare. «Le reazioni che i gatti evocano negli uomini sono molto diverse. Vanno dall'estremo dell’antipatia all’estremo della simpatia, passando per tutta la gamma intermedia. È che nel gatto, animale straordinariamente ricco di aspetti diversi, c'è di tutto. Tigre in miniatura, il gatto è una minuscola fiera, che a volte si manifesta graffiando, mordendo, saltando inopinatamente, soffiando, mettendo tutto in disordine e rompendo le cose in cui s’imbatte. Ma, quando l’elemento “fiera” si quieta, il gatto si mostra in modo opposto: vivace in una maniera che incanta, delicato e distinto in tutti i suoi gesti, espressivo nei suoi atteggiamenti, simpatico, delicato, insomma una vera statuina vivente.
«Ma una statuina, tuttavia, che non ha quella certa aria di bagatella inseparabile in generale anche dalle statuine più raffinate. Perché nel suo sguardo, che ha qualche cosa di magnetico e insondabile, di riservato e di enigmatico, il gatto conserva la terribile e attraente superiorità del mistero. Tale è la ricchezza dell'opera del Creatore che in questo essere meramente animale c’è qualcosa che presenta un’analogia precisa con le qualità e i difetti dell'uomo» (pp. 225-226).
Il secondo sentiero costeggia la montagna della bellezza a un’altezza superiore, ed è quello delle arti. Il tema è straordinariamente delicato, perché – come già si è accennato, e come ricorda il documento del Pontificio Consiglio della Cultura – da una parte vi sono oggi «artisti folli», magari idolatrati dalla critica e da certi musei ed esposizioni, che propagandano il volgare e il brutto, dall’altra anche all’infuori di questi casi siamo oggi circondati da «difficoltà dovute ad un certo clima culturale creato da una critica d’arte ampiamente influenzata da ideologie materialistiche: mettere in evidenza soltanto l’aspetto estetico-formale delle opere, senza interesse per il loro contenuto che ha ispirato tanta bellezza, rende sterile l’arte, inaridisce il flusso vivificante della vita spirituale per rinchiuderla nella sola emozione sensibile» (III.2).
Il testo di Corrêa de Oliveira non è né vuole essere un manuale di critica o di storia dell’arte, ancorché siano presentati alcuni spunti importanti, per esempio in tema di arte rinascimentale che, con tutta la sua perfezione tecnica, comincia a privilegiare la bellezza naturale e umana rispetto alla bellezza divina, e a rendere più difficile rispetto al Medioevo a chi fruisce delle sue opere, anche quando si tratta di arte sacra, l’immediato riferimento alla trascendenza divina. «La concezione medievale era fondata sull’idea dell’esistenza di un’altra vita e di un ordine di cose superiore. Il Rinascimento ruppe con questa percezione. Invece di cercare sempre l’ordine trascendente, considerando tutte le cose alla luce di un anelito a questo ordine superiore, l’uomo del Rinascimento comprendeva solo quanto poteva vedere e sentire in modo naturale» (p. 141). «L’opera d’arte del Rinascimento ci parla solo della vita presente. Se guardiamo allo sfondo paesaggistico dei dipinti la scena è una pura e semplice rappresentazione della natura. Descrizione spesso molto ben fatta e fedele, ma poco evocatrice, in quanto non ci rimanda ad altre realtà. Si tratta della natura, nulla di più. Se analizziamo una figura umana come una Madonna di Raffaello [Sanzio, 1483-1520] constatiamo lo stesso fenomeno: personifica una signora molto bella e serena, dotata di eccellente genio, di costumi molto puri, di tratto gradevole. Me non ci lascia l’impressione di qualche cosa di celeste. La pittura ci mostra una splendida persona di questa Terra. Nel Mosé di Michelangelo [Buonarroti, 1475-1564] ritroviamo lo stesso fenomeno. La scultura ci presenta un possente italiano, intelligente e capace, con uno sviluppo enorme della personalità. Ma nulla ci fa davvero percepire il Mosé della Bibbia, l’uomo che bagnò i suoi occhi in una luce soprannaturale e che venne in contatto con un ordine che trascende l’uomo» (pp. 220-221).
La lettura dell’opera d’arte – secondo il metodo della citata rubrica Ambienti, costumi e civiltà – e l’eventuale comparazione fra un’opera bella e una volgare o brutta, proposta da Corrêa de Oliveira, rimane una preziosa scuola per apprendere come la via pulchritudinis debba essere percorsa senza incertezze o deviazioni. Esemplare del metodo che è proposto – e che non manca di ricordare gli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio – è l’«esercizio di trascendenza» che parte dal castello di La Mota, sito a Medina del Campo, in Spagna (pp. 257-261). Come negli Esercizi si parte da una «composizione di luogo» relativa a una scena della storia sacra, qui si inizia con l’osservazione del castello, con il suo «contrasto armonico fra tensione verso l’alto e stabilità», fra torri e bastioni (p. 260). L’esercizio non ignora la storia del castello e il suo ruolo nella storia della monarchia spagnola, e da questo punto di vista impegna anche un elemento razionale e intellettuale. Ma si tratta di «trascendenza» precisamente in quanto la torre e i bastioni rappresentano «la tensione verso l’alto cattolica, la stabilità cattolica» e ultimamente permettono di elevare il pensiero allo stesso «Divino Spirito Santo, stabile e capace di attrarre tutto verso l’alto allo stesso tempo» (p. 261).
Né si tratta solo della «grande» arte. In parallelo con riflessioni di Papa Giovanni Paolo II sull’estensione del termine «cultura» – e forse anche con tesi tipiche della scuola brasiliana di sociologia che s’ispira a Gilberto Freyre (1900-1987), così attenta all’influenza sulla società di realtà come l’abbigliamento, gli svaghi, la cucina (Freyre e Corrêa de Oliveira, che su molti punti avevano idee diversissime, peraltro si conoscevano e si stimavano) –, il volume che recensiamo presenta «esercizi» e meditazioni che partono da piccoli oggetti – una serratura, una statuina – e anche dal cibo e dalle bevande, in particolare il vino, di cui si ricorda che fanno parte a pieno titolo della cultura e il cui «significato simbolico» (p. 209) è del resto ripetutamente menzionato nella stessa Sacra Scrittura. Beninteso, non si tratta qui della dimensione quantitativa dei cibi e delle bevande – il cui esclusivo apprezzamento, anzi, porta all’eccesso e al vizio – ma al contrario dell’elemento qualitativo e propriamente «culturale».
Un aspetto originale delle riflessioni di Corrêa de Oliveira che vale la pena di mettere in evidenza è l’uso dell’arte – ma anche delle bellezze della natura – come porta alla riflessione sul «mondo dei possibili» e su aspetti non necessariamente facili della metafisica. Ogni realtà è in potenza prima di essere in atto. Il mondo dei possibili è infinito, e solo pochi possibili passano dalla potenza all’atto. Quando si apprende a meditare sul mondo dei possibili si finisce per comprendere che solo Dio può completamente dominarlo nell’atto creatore. Il testo propone di meditare sul mare come «orizzonte dei possibili» (p. 153). E in Brasile, dove come ricorda ci sono molti discendenti d’immigrati giapponesi, Corrêa de Oliveira torna spesso a meditare sul «cono più bello del mondo che è un cono che non esiste» (p. 164): la punta del monte Fujiyama, in Giappone, che sembra mancare così che la celebre montagna sembra quasi un’opera incompiuta. «Lo charme del Fujiyama sta tutto nel non avere questa punta, che si può soltanto immaginare» (p. 162): e questa zona di possibilità ci dà una lezione di metafisica, ci evoca quella zona dove le possibilità sono colte nell’atto di trasformarsi in realtà, la «zona in cui l’uomo deve dimorare mentalmente per avvicinarsi a Dio» (p. 164). Passando dalla natura all’arte, un’altra meditazione muove dalle torri della cattedrale di Notre-Dame a Parigi, rimaste incompiute e che «nessuno ha osato completare» (p. 165). Ma «l’edificio ci dice qualche cosa di queste torri che non esistono perché nulla di quanto cerchiamo d’immaginare ci soddisfa, a causa di un modello che esiste notturnamente nel nostro spirito e che ci entusiasma. E l’entusiasmo per qualche cosa che possiamo conoscere solo per via negativa ci dà come una scintilla dell’Assoluto» (pp. 165-166).
Il volume rivela anche l’interesse particolare del pensatore brasiliano per la pittura dell’artista barocco francese Claude Lorrain (1600-1682), pittore per eccellenza di panorami del tutto immaginari: «egli compone una città che non esiste, giustapponendo cose che o esistono senza connessioni fra loro o non esistono del tutto» (p. 151). «Qui è favorito il viaggio dell’uomo all’interno del meraviglioso. I quadri di Claude Lorrain dicono relazione al fatto che, tra le bellezze della natura, ve ne sono alcune che sono proporzionate all’ordine naturale in cui viviamo, ma altre sono così magnifiche da avere qualche cosa di sproporzionato rispetto a quest’ordine. Sono così splendide che ci fanno pensare a un altro universo, a un mondo che può presentarsi a noi come irreale, come inesistente, ma verso il quale la nostra anima s’inclina in modo irresistibile» (p. 153). Nella mostra Turner e l’Italia di Palazzo dei Diamanti a Ferrara (15 novembre 2008 - 22 febbraio 2009) i curatori hanno insistito giustamente sul rapporto decisivo che lega il pittore romantico inglese William Turner (1775-1851) a Claude Lorrain. Tuttavia nella mostra di Ferrara il confronto fra le opere di Lorrain e quelle di Turner rivela facilmente come tra i paesaggi immaginari del maestro francese e quelli dell’artista inglese intercorre una differenza. Mentre, per dirla con Corrêa de Oliveira, «nei quadri di Lorrain non c’è nulla di tormentato» (p. 153), Turner s’ispira a Lorrain ma nei suoi quadri le costruzioni sono spesso rovine su cui infuria un tempo inclemente. Non si tratta solo del clima inglese: tra Lorrain e Turner si è rotto qualcosa, è passata la Rivoluzione francese, che non permette più d’immaginare paesaggi con la beata serenità del secolo XVII.
Come ricorda pure il documento del 2006 del Pontificio Consiglio della Cultura, vi è un terzo sentiero della via pulchritudinis che si spinge ben più in alto rispetto a quelli della natura e dell’arte: la contemplazione della santità e della bellezza delle azioni umane ispirate dalla grazia, nella vita e nelle cerimonie della Chiesa e nell’opera dei santi, fino alle vette sublimi e inarrivabili della montagna del Bello rappresentate dalla bellezza della Vergine Maria e del Signore Gesù. Un caso esemplare è la bellezza della liturgia della Chiesa. È interessante notare come sia il documento del 2006 sia il volume che recensiamo evochino lo stesso episodio: la conversione del poeta francese Paul Claudel (1868-1955) durante il canto del Magnificat nei Vespri di Natale a Notre-Dame a Parigi, peraltro rievocata anche da Benedetto XVI nel corso dei Vespri celebrati a Notre-Dame il 12 settembre 2008 nel corso del suo viaggio apostolico in Francia. Il documento vaticano mette in relazione questo episodio con l’altro – citato da una conferenza dell’allora cardinale Joseph Ratzinger – dei messi del principe Vladimiro di Kiev (958-1015) che, inviati a Costantinopoli per indagare sul cristianesimo, dopo una «solenne liturgia nella basilica di Santa Sofia» tornano entusiasti ed esclamano: «Non sappiamo se siamo stati in cielo o sulla terra», determinando il principe a quel battesimo che è «alle origini del cristianesimo in Russia» (III.3).
Naturalmente, vi è anche un rovescio di medaglia. Se la maestà di una bella liturgia può convertire, il carattere sciatto di certe liturgie di oggi può facilmente mettere in fuga potenziali convertiti. Ci si può chiedere che cosa troverebbe oggi Claudel, che cosa riferirebbero i messi al principe Vladimiro. «La superficialità, e talvolta perfino la banalità, addirittura la negligenza di alcune celebrazioni liturgiche non solo non aiutano il credente a progredire nel suo cammino di fede, ma soprattutto offendono coloro che ritornano alle celebrazioni cristiane e, in particolare, all’Eucaristia domenicale. In questi ultimi decenni, alcuni sono arrivati a dare eccessiva importanza alla dimensione pedagogica e alla volontà di rendere la liturgia comprensibile perfino agli osservatori esterni, e hanno minimizzato la sua funzione principale: introdurci con tutto il nostro essere in un mistero che ci supera totalmente» (ibid.). Né aiutano «la bruttezza di certe chiese e delle loro decorazioni, la loro inadattabilità alla celebrazione liturgica» (III.2).
La più grande bellezza è la santità, che non va confusa con la semplice filantropia naturale. Il documento del Pontificio Consiglio della Cultura lo ricorda con le parole del sacerdote ortodosso e filosofo russo Pavel Florenskij (1882-1937), definito «cantore russo della bellezza, martire del XX secolo» (muore, infatti, fucilato per ordine del regime comunista l’8 dicembre 1937, dopo anni di detenzione in un GULag). Scrive Florenskij commentando un passo del Vangelo di san Matteo (5, 16): «I vostri “atti buoni” non vuole affatto dire “atti buoni” in senso filantropico e moralistico: tà kalà erga vuol dire “atti belli”, rivelazioni luminose e armoniose della personalità spirituale – soprattutto, un volto luminoso, bello, di una bellezza per cui si espande all’esterno “l’interna luce” dell’uomo, e allora vinti dall’irresistibilità di questa luce, gli uomini lodano il Padre celeste, la cui immagine sulla terra così sfolgora» (III.3). Vi è qui una differenza fra il testo vaticano del 2006 e il volume che raccoglie i contributi di Corrêa de Oliveira. Lo schema generale è analogo, ma gli esempi di kalà, di «atti belli», nel documento del Pontificio Consiglio della Cultura sono i grandi eventi che segnano la presenza nel mondo della Chiesa (anzitutto la liturgia) e le vite dei santi. Corrêa de Oliveira, da laico, aggiunge esempi tratti dall’ordine temporale. Belle possono essere anche la testimonianza di chi ha guidato un popolo o uno Stato in armonia con la buona dottrina e le esigenze del bene comune, e la stessa struttura di una società bene ordinata, frutto della consecratio mundi cui è chiamato il laico cattolico nella sua missione temporale.
Si ritrovano qui riflessioni tipiche del pensatore brasiliano sul ruolo «ministeriale» della società temporale, sviluppate nell’opera postuma «Note sul concetto di Cristianità. Carattere spirituale e sacrale della società temporale e sua «ministerialità», pubblicata per la prima volta in lingua italiana a cura di Giovanni Cantoni (Thule, Palermo 1998) e riproposta ora nell’originale portoghese in appendice al volume (pp. 263-287). Queste riflessioni hanno avuto un ruolo decisivo per l’organizzazione delle varie associazioni fondate o ispirate da Corrêa de Oliveira, come ho cercato di mostrare nel mio «Una battaglia nella notte. Plinio Corrêa de Oliveira e la crisi del secolo XX nella Chiesa» (Sugarco, Milano 2008).
Nel volume che recensiamo sono pure presentate riflessioni del pensatore brasiliano sulla nozione di «trans-sfera», che a prima vista potrebbe richiamare a qualcuno idee del pensiero esoterico occidentale dei secoli XIX e XX, che ha talora parlato di una sfera in cui sarebbero depositati ricordi o immagini di tutte le azioni compiute nel corso della storia. Tutto il volume dimostra però il totale ripudio da parte di Corrêa de Oliveira di ogni riferimento all’esoterismo, espressione che per lui ha sempre il significato negativo di dottrina segreta riservata di diritto ai soli iniziati, così che in questo senso un esoterismo cristiano è impossibile. La «trans-sfera» è in realtà qualche cosa di più semplice di quanto l’espressione, non comune, potrebbe a prima vista lasciare intendere. Si tratta della sfera in cui, per così dire, passano le azioni della storia diventando «immagini» (p. 173) dello spirito: qualche cosa che non corrisponde esattamente ai fatti storici come realmente si sono svolti ma piuttosto al modo in cui si depositano nell’immaginario collettivo e influiscono sulle epoche posteriori. Si può parlare di «leggenda» (p. 183), distinguendo il senso etimologico di fatti di cui merita leggere dal senso corrente di racconti per il «sognatore» (ibid.), e certo anche di «mito»: precisando però che questa espressione ha «un senso cattivo e un senso buono» (p. 168), e il primo non deriva solo dal linguaggio corrente ma anche da un’antropologia di tipo relativista e «indigenista» (ibid.) che vorrebbe sostenere la superiorità del pensiero mitologico dei cosiddetti primitivi rispetto al pensiero logico.
Fatti negativi e positivi, come l’offesa recata al Papato nella persona di Bonifacio VIII (1230-1303) nell’episodio dello schiaffo di Anagni del 1303 (p. 176) o le gesta di santa Giovanna d’Arco (1412-1431: cfr. pp. 170-171) sono passate nell’immaginario collettivo in un modo che forse non corrisponde esattamente a come si sono svolti precisamente i fatti storici: e tuttavia è proprio la versione della «trans-sfera» di questi accadimenti che ha influenzato in modo decisivo eventi successivi, anche a distanza di molti secoli. Da un certo punto di vista «la leggenda è più importante della storia; la storia delle leggende è più importante della storia degli uomini» (p. 183). Forse la meditazione più significativa sulla «trans-sfera» riguarda un fenomeno importante per la storia del Portogallo e del Brasile, assai meno conosciuto fuori di questi Paesi: il sebastianismo. Il re del Portogallo Sebastiano I (1554-1578) scomparve nel 1578 combattendo contro i musulmani in Marocco. Il suo corpo non fu mai trovato, e di qui nacque la leggenda che questo giovane «re vergine» non fosse morto ma fosse entrato in uno stato di occultamento da cui sarebbe un giorno tornato quando la nazione portoghese avesse avuto bisogno di lui. Nel corso dei secoli il sebastianismo – di cui gli storici indagano le relazioni con il mito sciita dell’imam nascosto, che i portoghesi avevano conosciuto nei loro viaggi in Oriente – ha dato origine a veri e propri nuovi movimenti religiosi messianici e apocalittici, sia in Portogallo sia in Brasile. Per altri versi, il mito di Sebastiano I è pure stato utile alla causa dell’identità nazionale e cattolica portoghese in varie epoche storiche. Corrêa de Oliveira vede nel mito sebastianista un esempio caratteristico dei fenomeni della «trans-sfera». «Può darsi che il re Sebastiano non abbia compiuto alcune delle gesta che sono alla base della sua leggenda. Ma questa non è la cosa più importante. La cosa più importante è che nella storia sia potuta sorgere una tale leggenda» (p. 183).
Beninteso, il sebastianismo come attesa del ritorno fisico di Sebastiano I è un errore. Ma il mito è letteralmente pieno di contenuti profondi. Afferma Corrêa de Oliveira: «Per me l’uomo simbolo del Portogallo è un nome che non pronuncio mai senza emozione, perché ho l’impressione che su di esso scendano tutte le grazie cui il Portogallo era chiamato: il re Sebastiano. Del re Sebastiano si narrano cose per cui sembra più un angelo che un uomo. Quale altra figura si trova nella storia che, dopo la morte, lascia dietro di sé una leggenda come quella sebastianista?» (p. 171). «Come tutte le altre nazioni d’Europa, il Portogallo già cominciava a essere corrotto dal Rinascimento. Ma lì fioriva pure qualche cosa di fondamentalmente opposto al Rinascimento. E quando il re fosse tornato dall’Africa con la fronte aureolata dalla gloria di non so quante vittorie, dopo avere esteso il potere del Portogallo nel Nord dell’Africa, allo zenit dell’Europa sarebbe brillato un principe medioevale. L’onore della cavalleria agonizzante sarebbe rifulso di nuovo; la tesi secondo cui il potere temporale esiste per il servizio all’autorità spirituale avrebbe brillato di nuovo; e di fronte a un tipo umano magnifico sarebbero impalliditi i modelli corrotti che il Rinascimento applaudiva» (pp. 171-172). «I portoghesi sognavano il re Sebastiano ma nella realtà venne per il Portogallo qualcuno di molto più alto: venne Nostra Signora. Non venne un re vergine, ma venne la Vergine delle Vergini» (p. 172) a proclamare a Fatima che «in Portogallo si conserverà sempre il dogma della fede», non una piccola promessa per una nazione che nel 1917 ormai non era più grande. La verità del mito del re Sebastiano – così esposto a interpretazioni pericolose – sta per il pensatore brasiliano nel misterioso preannuncio delle apparizioni di Fatima.
Vale per Sebastiano I quanto Corrêa de Oliveira afferma di Carlo Magno (742-814): «ci sono due Carlo Magno: il Carlo Magno storico e quello della trans-sfera. Possiamo dire che il secondo non è il Carlo Magno “reale” ma nello stesso tempo che è più profondo del Carlo Magno “reale”. E questo Carlo Magno “irreale” opera, il suo ricordo genera conseguenze. La storia del mondo sarebbe certamente diversa se, dopo la sua morte fisica, scomparisse anche il Carlo Magno della trans-sfera» (p. 169). Né si devono opporre – aggiungo – in modo troppo rigido la storia «come si è svolta veramente», che sarebbe il campo proprio degli storici di professione, e la storia come è entrata nell’immaginario collettivo. Un grande storico accademico come Marco Tangheroni (1946-2004) – che di Corrêa de Oliveira fu attento e affezionato lettore – ci ricorda che anche chi ha la storia per professione «deve fare una scelta tra gli infiniti fatti: se volesse riprodurli tutti egli non sarebbe meno pazzo di un geografo che volesse riprodurre la Terra in scala 1:1 e avrebbe bisogno, pertanto, di un altro pianeta di analoghe dimensioni!» (Della storia. In margine ad aforismi di Nicolás Gomez Dávila, Sugarco, Milano 2008, p. 88). Certo, il rapporto che la storiografia accademica intrattiene con le fonti e i documenti la pone su un piano diverso rispetto alla memoria storica presente nel corpo sociale in genere. E tuttavia a modo suo anche la comunità degli storici di professione, proprio in quanto non può riprodurre il passato «in scala 1:1» ma opera delle scelte, contribuisce alla costruzione dei «miti» relativi a personaggi ed episodi della storia.
Di fronte a queste pagine può nascere un’obiezione, che il testo non manca di affrontare nei capitoli finali. Non si tratterà di una fuga dalla realtà prodotta da spiriti romantici che si occupano della bellezza, dell’arte, delle leggende anziché della vita concreta e reale? Chiunque conosca l’avventura umana di Corrêa de Oliveira risponde facilmente a questa obiezione. Il pensatore brasiliano era precisamente il contrario di un romantico fuori della realtà: fu uomo politico (nel 1933 fu eletto deputato, il più giovane e il più votato di tutto il Brasile), direttore di giornali, fondatore e guida di associazioni importanti e numerose in diversi Paesi del mondo. Ma l’obiezione resta, e ricorda quella – che si può far risalire ultimamente al marxismo – affrontata da Benedetto XVI nella parte finale dell’enciclica Spe salvi: la stessa speranza cristiana, che ha come punto di riferimento la vita eterna, non è una fuga dalla vita terrena concreta, dalle grandi questioni della storia e della politica? Il Pontefice risponde che è sufficiente guardare ai frutti: il cristianesimo, con lo sguardo rivolto alla vita eterna, ha aiutato l’uomo concreto mentre le ideologie, che proclamavano di occuparsi davvero della vita terrena, hanno piuttosto arrecato rovine e morte.
Corrêa de Oliveira risponde a sua volta che la «contemplazione sacrale» della bellezza non è destinata a rimanere tra quattro mura, ma a uscirne per cambiare il mondo. Da questo punto di vista, è precisamente il contrario del romanticismo, simboleggiato da «due solitari, in un locale appartato, che si contemplano l’un l’altro ignorando tutto quanto sta loro intorno» (p. 180). Il romanticismo è «lo sviamento di quella che si potrebbe chiamare nostalgia di Dio» (ibid.). Parte da quella «nostalgia di Dio» che spinge l’anima a percorrere la via pulchritudinis tramite la trasparenza e la trascendenza delle realtà create verso l’Assoluto, ma la svia verso il sentimentalismo. «Il romanticismo fu uno degli artifici più terribili concepiti dalla Rivoluzione. Prima di lui l’umanesimo, alla fine del Medioevo, costituì il sogno dell’antica Roma. Poi ci fu il sogno cartesiano. Anche il razionalismo e l’illuminismo sono forme di sogno. Il sogno tipico del secolo XIX fu la vita romantica» (ibid.).
Finalmente, chiunque di noi abbia conosciuto la «vita bella» di uno spirito giusto sa quanto questa bellezza sia la realtà più concreta che possiamo incontrare su questa Terra e ci ispiri non a fuggire dal mondo ma a cercare di trasformarlo cercando d’imitare chi abbiamo avuto la grazia d’incontrare. La stessa vita di Corrêa de Oliveira, da questo punto di vista, è una testimonianza resa al pulchrum. E a quanti, come chi scrive, hanno conosciuto la bellezza della santità – e la scuola contro-rivoluzionaria – frequentando in Italia Alleanza Cattolica non può non apparire significativo l’essersi trovati a meditare su questo tema nell’anno della scomparsa di Enzo Peserico (1959-2008), che di tante iniziative di Alleanza Cattolica fu instancabile animatore e la cui «vita bella» rimane per i molti cui ha fatto del bene una porta verso quell’Assoluto in cui il vero, il bene e il bello necessariamente convergono.