Sinodo Panamazzonico: una Chiesa dal volto sciamanico?
di José Antonio Ureta
L’obiettivo prioritario della prossima Assemblea speciale del Sinodo dei Vescovi è quello di “individuare nuovi cammini per far crescere il volto amazzonico della Chiesa” [1]. Poiché è possibile far crescere soltanto qualcosa che già esiste, conviene studiare la forma che i missionari attivi nell’Amazzonia stanno già dando alle loro comunità e il modello di evangelizzazione che sognano.
A questo scopo, studieremo qui il caso di un missionario tedesco della Società del Verbo Divino, che propone l’incorporazione dei riti magici dei guaritori amazzonici nell’azione pastorale della Chiesa Cattolica.
Si tratta del sacerdote Karl Heinz Arenz SVD, che ha lavorato fra il 1990 e il 2003 alla formazione degli agenti pastorali nell’allora prelatura e oggi diocesi di Óbidos e nella diocesi di Santarém, nella regione brasiliana della Bassa Amazzonia. Il religioso verbita oggi è cattedratico di Storia Moderna e Contemporanea all’Università Federale di Pará, a Belém[2].
La presunta convergenza tra il Vangelo e le guarigioni sciamaniche sostenuta da padre Arenz è stato il tema della tesi del suo dottorato, sotto la direzione di padre Paulo Suess, uno dei relatori del Documento Preparatorio del Sinodo Panamazzonico[3]. La tesi è stata pubblicata nel 2003 sotto il titolo Sano e salvo: i rituali sciamanici della popolazione rivierasca della Bassa Amazzonia come sfida per l’evangelizzazione[4].
Oggetto della tesi dottorale sono le pratiche di guarigione degli abitanti del “beiradão” della Bassa Amazzonia e dei suoi affluenti, chiamati familiarmente “caboclos”, di origine amerinda, i quali, nei secoli XVII e XVIII, sono stati attirati nella selva per formare villaggi da parte di missionari francescani e gesuiti e più tardi incorporati nelle cittadine dei coloni dalle autorità secolari.
Questi “caboclos” o “rivieraschi”, con gradi maggiori o minori di meticciato e che a metà del secolo XX costituivano il 50% della popolazione di quella regione, hanno preservato la loro identità indigena attraverso diverse forme di resistenza all’integrazione, favoriti dalla loro familiarità con la selva amazzonica, la loro vita autonoma in piccole comunità ai margini dei fiumi e, soprattutto, dalla pratica della “pajelança” (termine inventato dagli antropologi per descrivere i rituali sciamanici dei “pajés”, nome dato nella regione agli stregoni).
La religione di questi “rivieraschi” è un amalgama sincretista fra l’evangelizzazione dei primi missionari e la persistenza di pratiche sciamaniche, che costituiscono la chiave di lettura principale per capire tutta la loro cosmovisione.
Del cattolicesimo hanno conservato il culto alle immagini dei santi patroni, venerati non per le virtù che praticarono, ma per il loro potere protettore soprannaturale. Fra tanti santi patroni (Nostra Signora di Nazaré, Sant’Antonio, San Benedetto, Santa Lucia, etc.) sono incluse immagini della Santissima Trinità, dello Spirito Santo, del Bambin Gesù e del Sacro Cuore, visti come qualsiasi altro patrono.
Del paganesimo hanno conservato la credenza negli “encantados” – esseri misteriosi del fondo dell’acqua e della selva – che rappresentano le forze della natura e si manifestano alle persone sotto varie forme (esseri umani, animali, voci o sibili). Contrariamente ai santi patroni, che sono protettori, gli “encantados” svolgono un ruolo ambiguo e possono causare effetti tanto benefici quanto malefici, specialmente per la vita e la salute delle comunità. Poiché si tratta di entità che “abitano” e dinamizzano la natura, per evitare la loro interferenza diretta nella vita quotidiana, nei loro riguardi le persone adottano un atteggiamento di cautela, cercando di mantenere con essi un certo equilibrio. La foresta e, ancora di più, il fiume sono luoghi sacri, perché sono la residenza di questi encantados.
Il “cielo” e Dio – frequentemente chiamato, in tono rispettoso, “il Vecchio di lassù” – sembrano molto lontani e statici, mentre l’ambiente della selva è dinamico e coinvolgente e costituisce il luogo dove santi, “encantados” e esseri umani interagiscono. “La loro religione è un misto di feticismo con politeismo...Difficilmente si troverà fra di loro un individuo perfettamente monoteista”, affermava già alla fine secolo XIX l’educatore e sociologo paraense José Veríssimo[5].
In questo insieme di feticismo e politeismo, certi encantados delle profondità dell’acqua, chiamati “caruanas”, sono le componenti più importanti dell’immaginario dei “caboclos”, poiché essi possono essere impiegati dallo sciamano come agenti principali della guarigione dai feticci o dalle malattie provocate dagli spiriti malefici per vendicare qualche abuso verso la natura, una mancanza di rispetto dei tabù alimentari o altro.
“Il pajé”, spiega padre Arenz, “come esperto religioso è divenuto, tramite un processo di iniziazione, un conoscitore intimo di alcuni encantados del fondo dell’acqua che egli ritiene suoi compagni e guide personali. ... Soltanto con il loro aiuto il pajé riesce a trasformare una situazione di disordine (malattia, perturbazione) in ordine (benessere, salute)”[6].
È nella seduta di guarigione che si rivela la capacità terapeutica dello sciamano. Non esiste un rito fisso, ma le sedute seguono un certo modello:
- si svolgono di notte in una sala chiusa, con al centro un banchetto o una rete affinché il pajé possa sedersi mentre la famiglia e gli amici stanno attorno;
- il pajé viene rivestito con nastri e penne e ingerisce bibite alcoliche, a volte fino all’eccesso, per prepararsi al “lavoro”;
- proferisce alcune invocazioni fino al momento culminante dell’ “estasi”, durante il quale esce fuori dal suo corpo verso il mondo soprannaturale, alla ricerca di guarigione e “incorpora” i suoi “caruanas” amici, i quali ristabiliranno l’ordine nel corpo malato; nel ricevere ogni “encantado”, il pajé agita il suo maracá (una specie di sonaglio di sementi), respira in forma rumorosa, saluta i presenti, si alza, canta e danza nella stanza finché l’ente si congeda e il pajé incorpora successivamente altri “encantados”. (Secondo l’antropologo Raymundo H. Maués, “l’ambiente è disteso, permette scherzi, barzellette, che partono tanto dagli encantados che parlano dalla bocca del pajé, come dai partecipanti che si rivolgono all’ “encantado”[7].)
- Quando arriva l’encantado principale, la seduta giunge al suo climax. Questi chiama, tramite il pajé, il malato che è posto in mezzo alla sala, seduto sul banchetto. In seguito il pajé affumica il paziente, principalmente la parte del corpo colpita dalla malattia, col sigaro tauari che egli fuma con le braci dentro la bocca, per poi “risucchiare la malattia” con le labbra, fingendo di estrarre di tanto in tanto un piccolo oggetto dal corpo del malato.
- La chiusura della seduta è un momento critico, perché il pajé “torna”, con convulsioni, al suo stato normale. Egli sembra svegliarsi da un sonno profondo e, normalmente, afferma di non ricordare nulla di quanto appena accaduto[8].
La prossimità di questo rituale al feticismo è messa in rilievo dal citato antropologo Raymundo H. Maués: “Il pajé (o guaritore), per il fatto d’essere capace di guarire le malattie, è anche visto come uno che possiede il potere di provocarle. Da questa ambiguità fondamentale deriva certamente il sospetto che frequentemente ricade su di lui: tutti i pajé sono, potenzialmente, fattucchieri”[9].
Non sorprende che, già agli inizi del secolo XVII, il missionario cappuccino francese Claude d’Abbeville sottolineasse il carattere probabilmente diabolico degli spiriti invocati nei rituali di guarigione. Egli descrive i guaritori come “personaggi che utilizzano il diavolo per mantenere viva la superstizione degli indios”, i quali “fanno credere al popolo che basti soffiare sulla parte malata per guarirarla… risucchiando e sputando il male e portando la guarigione”. In realtà, “nascondono pezzi di pane, di ferro o di ossa e, una volta risucchiata la parte malata, mostrano questi oggetti alla vittima, fingendo di averli tirati fuori dal suo corpo. Così succede che a volte i malati guariscono, ma per effetto dell’immaginazione o della superstizione [la medicina moderna parlerebbe di effetti placebo], per arti diaboliche”[10].
Per padre Arenz, tuttavia, non esiste niente di preternaturale in questi rituali, bensì si tratta di una manipolazione magica da parte del pajé del fluire ininterrotto delle forze cosmiche indomite: “La magia è ritenuta la base di tutto il sistema sciamanico”, afferma il religioso. E prosegue: “La magia si basa sullo sfruttamento coerente e organizzato dei movimenti costanti della natura per il bene della comunità. Questa funzione sociale della magia ha una profonda connotazione spirituale al fine di stabilire rituali che trascendono l’ambito naturale in sé, e che si collocano dentro un ‘orizzonte di mistero’”[11].
È precisamente in questa funzione sociale di ristabilimento dell’ordine cosmico nel seno della comunità che il cattedratico e missionario vede il punto di convergenza fra la “pajelança” e il cristianesimo. Gesù Cristo farebbe parte di quelle “figure magico-profetiche” che emergono nelle situazioni di mutamento e incertezza, come quella che viveva la Galilea dopo l’invasione romana a causa del processo accelerato di ellenizzazione culturale. “Gesù mai somigliò nel suo agire e nel suo discorso ai filosofi del suo tempo” prosegue il religioso verbita. “Nel suo tentativo di essere ‘profeta del Regno’ e di portare la forza di questo regno in mezzo alle persone del suo tempo, egli si servì di segni prossimi alla magia, senza preoccuparsi della loro razionalità o della loro logica, come invece avrebbero fatto i filosofi”[12].
Dopo aver sottolineato che “il termine magia non può essere usato soltanto in termini peggiorativi o discriminatori”, dato che “essa mira alla restaurazione dell’ordine della creazione nella vita delle persone e dei gruppi”, padre Arenz afferma che “Gesù dispose – gratuitamente – di gesti e segni magici comuni all’epoca, usandoli al servizio del Regno e ricorrendo così a una ‘magia buona’, promotrice di vita e di senso” [13].
Persino “l’avvenimento chiave della vita di Gesù, la sua morte e resurrezione, può essere avvicinato alla caratteristica costitutiva dello sciamanismo, l’estasi. Nella discesa di Gesù al ‘regno della morte – anzi alla ‘dimora dei morti – e nella successiva ascensione al cielo avviene, in maniera analoga, un viaggio alla ‘seconda realtà’, destinazione dell’esperienza estatica degli sciamani”[14].
A favore di questa sua tesi, il nostro cattedratico paraense cita lo storico Eduardo Hoonaert, ex sacerdote, oggi sposato, secondo cui “non costituisce affatto una mancanza di rispetto paragonare Gesù a uno sciamano, uomo che guariva, consigliava, restituiva la libertà perduta. Del resto, la lettura attenta dei vangeli non ci permette di dimenticare che Gesù compì gesti espliciti di guaritore e consigliere”[15].
Per tentare di giustificare teologicamente questa analogia blasfema di Nostro Signore con la stregoneria, padre Arenz ha bisogno di sovvertire radicalmente il significato soprannaturale e morale della Redenzione, dandole una dimensione meramente naturale e terapeutica: “La missione di Gesù non fu quella di presentare a Dio una soddisfazione per gli errori e le colpe delle persone, sacrificandosi per esse. La sua missione fu quella di portare loro integrità e pienezza da parte di Dio, consegnandosi alle persone ferite. Gesù divenne loro ‘alleato’ perché potessero avere più vita”[16]. La Chiesa deve, perciò, “riscattare il nucleo terapeutico del progetto evangelico”[17], e la Teologia sta già felicemente includendo “connotazioni terapeutiche in concetti finora ben definiti”: “il termine salvare non è più associato, esclusivamente, alla vita dopo la morte o al miglioramento etico della persona, ma comprende anche la dimensione pratica del sanare e guarire”[18].
Di fatto, continua, “mentre la persona del tempo di Gesù e dei due secoli successivi metteva la malattia al centro della sua fede e della sua adesione al Cristo Medico, con l’influenza dell’ambito culturale ellenistico emerse una soteriologia del peccato con forte connotazione moralistica, che impedì lo sviluppo di una teologia terapeutica che avesse per oggetto la persona intera”[19]. Pertanto “la guarigione e altre pratiche terapeutiche persero l’importanza che ebbero nei resoconti evangelici dal momento che la Chiesa fece uno spostamento culturale verso l’ambiente ellenistico”[20].
La successiva mancanza di dialogo con le culture “fece della Chiesa una istituzione anch’essa patogena. … L’insistenza della Chiesa su certi concetti di morale e di dottrina, specialmente in rapporto al peccato e alla colpa ‘soffocò’ l’impegno terapeutico con la vita”[21]. Tuttavia, il desiderio umano di essere simultaneamente sano e salvo “viene riconosciuto nelle riflessioni più recenti della teologia cattolica che mettono in questione la dicotomia corpo e anima della tradizione speculativo-dogmatica, riscattando così la visione integrale della persona umana presentata dalla Bibbia”[22].
L’attuale recupero teologico di una visione olistica dell’uomo permette la convergenza tra la tradizione evangelica e la tradizione sciamanica, poiché si riconosce che “entrambe hanno come assi la convertibilità dal disordine, la complementarietà fra elementi magici e religiosi e l’efficacia del quotidiano”[23]. Suddetta restaurazione dell’ordine “mira nel caso di Gesù al compimento definitivo della creazione” (l’evoluzione verso il Cristo-Omega, direbbe Teilhard de Chardin), mentre “nella pajelança essa cerca la conservazione permanente dell’armonia a livello cosmico tramite una posizione di rispetto e di riverenza davanti agli altri co-partecipanti del cosmo”[24].
Così, “le conclusioni della riflessione teologica e le categorie delle pratiche sciamaniche si completano a vicenda nell’obiettivo di servire la vita”. In questa complementarietà, la tradizione sciamanica sembra avere un vantaggio: “Con il suo orizzonte cosmico si dimostra più pratica, giacché mira all’interazione costante e dinamica fra i componenti del cosmo come garanzia del benessere integrale” [25].
La conclusione naturale di tutte queste elucubrazioni strampalate del nostro cattedratico tedesco è che “esistono ‘ponti’ fra il cristianesimo e la pajelança”, in quanto “le pratiche sciamaniche non possono più essere giudicate come superstizione, condannate alla clandestinità, bensì come avvenimenti di dimensione spirituale trasformatrice”[26]. “La pajelança ha, dunque, il diritto di tornare –in modo riconosciuto e consapevole – al centro dell’esperienza quotidiana delle comunità cristiane delle riviere amazzoniche”[27].
All’obiezione che tale riconoscimento favorisca il sincretismo, padre Arenz risponde che quest’ultimo “è un fenomeno da cui nessun sistema religioso è libero” e, anzi “è una cornice importante sulla strada di una religione ufficiale che diventa una religione, di fatto, viva”[28]. E cita Eduardo Hoonaert: “In questo senso, il sincretismo è esigenza della missione. ... La missione, in realtà, ha due momenti: un primo momento apologetico ... e un secondo momento sincretico”[29].
In concreto, urge riconoscere il ministero dogli agenti terapeutici che sono i pajés, in quanto fedeli impegnati con la vita. “La condizione gerarchica della Chiesa”, assicura padre Arenz, “non è, necessariamente, un impedimento per il riconoscimento dell’importanza del loro servizio. La gerarchizzazione non può essere vista come un fatto assoluto”. Dato il suo carattere carismatico, tale ministero terapeutico deve godere di molta autonomia: “Come sciamani, essi non dipendono da strutture e convenzioni stabilite per legittimare il loro dono, ma soltanto dall’ ‘accompagnamento mistico’ dei loro ‘caruanas’. Questo fatto li rende indipendenti davanti a qualsiasi istituzione”[30].
Tale integrazione della pajelança nel ministero terapeutico della Chiesa è tanto più necessaria in quanto “i sette sacramenti, stabiliti, regolamentati e spiritualizzati definitivamente nel Concilio di Trento (1545-1563) non ricordano più i tre elementi complementari dell’attuazione diaconale di Gesù: perdonare, guarire e condividere” e i gesti, le parole e gli oggetti sacramentali vanno rinvigoriti nella loro “efficacia simbolica” [31].
Un riconoscimento del ministero terapeutico dei pajés che abbia come fondamento l’autonomia della guarigione sciamanica e la sua complementarietà con i ministeri tradizionali (“invece di contrapporre il servizio del sacerdote a quello del pajé”[32]) favorirebbe la “ ‘ri-forma’ [dell]a ecclesiologia”, nella misura in cui verrebbe riconosciuto che la Chiesa è il popolo di Dio che cammina in mezzo alla differenti culture”[33] e che il suo oggetto basico è “quello di essere ministro della vita in mezzo a un mondo frammentato e ferito”[34].
In questo senso, il “riconoscimento degli experts della pajelança – che si considerano generalmente cattolici – è il primo passo” per “la costante ‘conversione’ da parte della Chiesa” e “può contribuire, nel lungo periodo, a concepire una teologia amazzonica”[35].
Ecco, dunque, ben definito la meta finale di coloro che sono nelle migliori condizioni per influenzare le discussioni della prossima assemblea speciale del Sinodo dei Vescovi: una Chiesa amazzonica dal volto di guaritrice.
Tentativo vano e blasfemo, diciamo noi, perché… “quale intesa tra Cristo e Belial?” (2 Cor 6, 15).
[1] Documento Preparatorio “Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale”, n° 12, http://www.synod.va/content/synod/it/attualita/sinodo-sull-amazzonia--documento-preparatorio---amazonia--nuovi-.html
[2] Padre. Karl-Heinz Arenz SVD ha una laurea e un master in Teologia della Facoltà Filosofico-Teologica di Sankt Augustin, Germania. Ha un dottorato in Teologia Dogmatica con specializzazione in Missiologia nella Pontificia Facoltà di Teologia Nossa Senhora da Assunção, São Paulo-SP. Ha seguito anche un master in Storia Moderna e Contemporanea con specializzazione in Storia del Brasile e del Sud Atlantico nella Università Parigi IV (Parigi-Sorbonne), Francia. Ha ottenuto un Dottorato in Storia Moderna e Contemporanea con specializzazione nella Storia del Brasile e del Sud Atlantico nella stessa istituzione francese.
[3] http://blog.pucp.edu.pe/blog/buenavoz/2018/04/20/concluye-primera-reunion-preparatoria-al-sinodo-para-la-amazonia/
[4] Disponibile per il download all’indirizzo https://digitalrepository.unm.edu/abya_yala/477/
[5] As populações indígenas e mestiças da Amazônia. Sua linguagem, suas crenças e seus costumes, in ARENZ São e salvo: A pajelança da população ribeirinha do Baixo Amazonas como desafio para a evangelização, p. 170.
[6] ARENZ, Ibid. p. 51.
[7] Padres, pajés, santos e festas: catolicismo popular e controle eclesiástico. Um estudo antropológico numa área do interior da Amazônia. Belém, Cejup, 1995, p. 185.
[8] “La somiglianza delle pratiche magico-religiose indigene nelle Americhe con lo sciamanismo nord-asiatico permette di giungere alla conclusione di una interconnessione diretta tra le tradizioni religiose dei due continenti”, afferma Mircea Eliade (O xamanismo e as técnicas arcaicas do êxtase. São Paulo, Martins Fontes, 1998 pp. 366). Di fatti, il rituale del pajé contiene tutti gli elementi caratteristici dello sciamanismo, il quale “può essere definito come una famiglia di tradizioni i cui praticanti si adoperano per entrare volontariamente in stati alterati di coscienza, nei quali esperimentano sé stessi o lo spirito che viaggia in altre dimensioni, sotto il comando della loro volontà, interagendo con altre entità al fine di servire la comunità” (WALSH, Roger N., O espírito do xamanismo. Uma visão contemporânea desta tradição milenar. São Paulo, Saraiva, 1993).
[9] Op. cit. p. 222, in ARENZ, São e salvo, p. 174.
[10] História da missão dos padres Capuchinhos na ilha do Maranhão e terras circunvizinhas, in ARENZ, K.H., São e salvo. p. 143.
[11] Ibid. p. 135.
[12] Ibid. p. 210.
[13] Ibid. p. 210 e 211.
[14] Ibid. p. 214.
[15] Ibid. p. 224.
[16] Ibid. p. 264.
[17] Op. cit. p. 19.
[18] Ibid. p. 246.
[19] Ibid. p. 197.
[20] Ibid. p. 197.
[21] Ibid. p. 261.
[22] Ibid. p. 56.
[23] Ibid. p. 209.
[24] Ibid. p. 210.
[25] Ibid. pp. 212 e 213.
[26] Ibid. p. 216.
[27] Ibid. p. 217.
[28] Ibid. p. 238.
[29] Ibid. p. 239.
[30] Ibid. p. 260.
[31] Ibid. p. 258-259.
[32] Ibid. p. 261.
[33] Ibid. p. 265.
[34] Ibid. p. 266.
[35] Ibid. p. 281.