Il pericoloso utopismo indigeno del “Documento Preparatorio” del Sinodo panamazzonico
di Julio Loredo
Il termine “utopia” designa un’aspirazione ideale non suscettibile di realizzazione pratica. Normalmente ha un senso negativo, fondato su una visione ideologica e non sulla realtà. In ciò si distingue dall’ideale cristiano, orizzonte ultimo verso il quale l’uomo deve tendere, e che si realizzerà pienamente nella vita eterna. L’utopia, al contrario, è sempre malsana. Indica un’aspirazione anarchica e libertaria, contraria all’ordine creato da Dio. Le rivoluzioni scaturiscono sempre da utopie, a cominciare dal non serviam! di Lucifero, matrice di tutte le utopie nella storia.
La peggiore utopia, quella che soggiace a tutte le rivoluzioni moderne, è quella del “buon selvaggio”, esposta inizialmente da Jean-Jacques Rousseau. Pretende che l’uomo nasce naturalmente buono, ed è la società, cioè la civiltà, che lo corrompe. Questa utopia è stata utilizzata dalle correnti rivoluzionarie, a mo’ di ariete, per contestare ogni struttura morale, sociale, politica ed ecclesiastica, in altre parole, ogni elemento di civiltà.
Questo mito ispirò la Rivoluzione francese. Non è un caso che Rousseau fosse il nome più menzionato nei discorsi all’Assemblée. Tutti si dichiaravano suoi discepoli. Il suo busto fu intronizzato all’ingresso, e Robespierre arrivò a proporle un culto pubblico. Il tutto in opposizione all’ordine gerarchico e sacrale, rappresentato dall’Ancien Régime.
Il mito del buon selvaggio occupa un posto centrale anche nell’ideologia comunista. Engels propose la tribù indigena come modello di società comunista. Il socialismo sarebbe appena una tappa verso il ritorno allo stato selvaggio, ma in “un livello superiore”. Commentando l’affermazione del Procuratore del Sinodo Ortodosso, Pobedonosev, che il bolscevismo conduceva di nuovo alla barbarie, Leon Trotskij disse che era l’unica persona del vecchio mondo zarista che aveva afferrato l’essenza di questa corrente.
La Rivoluzione del ’68, chiamata rivoluzione culturale, lanciò il tipo umano dell’hippie, versione moderna del “buon selvaggio”. “La rivoluzione culturale significa veramente una rivoluzione nella maniera di sentire, agire e pensare, una rivoluzione nelle maniere di vivere (collettivamente ed individualmente), insomma una rivoluzione della civiltà”, proclamava Pierre Fougeyrollas.
Il mito del “buon selvaggio” si è insinuato anche nel Documento Preparatorio del prossimo Sinodo dei vescovi della regione pan-amazzonica.
“Per i popoli indigeni dell’Amazzonia – dice il Documento Preparatorio – il «buon vivere» esiste quando si vive in comunione con gli altri, con il mondo, con gli esseri circostanti e con il Creatore. I popoli indigeni, infatti, vivono all’interno della casa che Dio stesso ha creato e ha dato loro in dono: la Terra. Le loro diverse spiritualità e credenze li portano a vivere una comunione con la terra, l’acqua, gli alberi, gli animali, con il giorno e con la notte. I vecchi saggi, chiamati indistintamente – fra l’altro – payés, mestres, wayanga o chamanes, hanno a cuore l’armonia delle persone tra loro e con il cosmo. Tutti costoro «sono memoria viva della missione che Dio ha affidato a tutti noi: avere cura della Casa Comune»”.
Il Documento Preparatorio evita di dire che i “payés, mestres, wayanga o chamanes” sono gli stregoni delle tribù. In altre parole, propone di assumere la spiritualità pagana e immanentista delle tribù amazzoniche per creare ciò che chiama “una Chiesa dal volto amazzonico”.
Per praticare questa nuova spiritualità “amazzonica”, non serve una conversione nel senso di abbandonare il peccato per abbracciare la virtù. Serve una “conversione pastorale ed ecologica”, fondata sul sentirsi uno con la natura. La Chiesa non può evangelizzare questi popoli nel senso di convertirli alla Fede come è stata sempre intesa. Deve assumere “i saperi ancestrali” delle popolazioni amazzoniche, adottando nuovi stili di vita e di produzione economica.
Questionabile da punto di vista scientifico, questa visione idillica del nativo amazzonico è manipolata per questionare una serie di presupposti della Chiesa. Il Documento Preparatorio propone di ripensare la stessa natura della Chiesa, la sua liturgia, i suoi ministeri, i suoi sacramenti. Insomma, di far nascere una nuova Chiesa.