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Editoriale

 

L’apostolato del Bello

 

Nel 1969 Paolo VI impiegò un’espressione la cui portata è diventata man mano sempre più evidente: "generazione dell’immagine".

Si riferiva alle giovani generazioni caratterizzate dalla spontaneità delle reazioni primarie, senza il controllo dell’intelligenza e senza la partecipazione effettiva della volontà, dal predominio della fantasia e delle "esperienze" a scapito dell’analisi metodica della realtà, frutto tutto ciò, in larga misura, d’una pedagogia che riduceva quasi a nulla la parte della logica.

Queste generazioni ponevano una sfida epocale alla pastorale della Chiesa. Inutile, e a volte perfino controproducente, insistere su una catechesi troppo intellettualista e fondata sulla mera accese. Avrebbe appena accentuato il distacco.

Deturpando i termini del problema, i progressisti colsero l’occasione per ideare tutt’una "pastorale giovanile" fondata sul massiccio utilizzo di modi "moderni". Ed ecco il moltiplicarsi di Messe-rock, di ritiri spirituali-happening e di oratori-discoteca, tutto all’insegna di un "aggiornamento" inteso come l’accettazione acritica di quella modernità nata dalla rivoluzione del ‘68.

I risultati sono lì per chiunque abbia occhi per vedere: le chiese si sono svuotate, la pratica della Fede è crollata ai minimi storici, le vocazioni religiose si fanno sempre più rare. "I cristiani sono diventati di nuovo una minoranza", si lamentava il Cardinale Ratzinger nel 1984. Ancor peggio. Con le dovute eccezioni, molti giovani attirati da questa nuova "pastorale" esibivano una religione non sempre in linea con quella di Nostro Signore Gesù Cristo.

Non è la prima volta che, nella sua bimillenaria storia, la Chiesa ha dovuto affrontare una sfida pastorale di fronte a genti con inadeguato interesse intellettuale. Pensiamo a settori del mondo germanico o slavo nell’Alto medioevo. La Chiesa li ha convertiti facendo soprattutto leva sulla bellezza della sua liturgia, della sua arte, della sua musica, sulla bellezza delle anime abitate dalla grazia divina.

Affascinato dal cerimoniale per il suo battesimo, il giorno di Natale del 496, Clovis Re dei franchi chiese al vescovo S. Remigio: "Padre, è questo il Paradiso che tu mi hai promesso?"

Dopo una liturgia nella Basilica di Santa Sofia, nel 958, i due inviati del duca Vladimiro di Kiev scrissero: "Non sappiamo se siamo stati in cielo o sulla terra", determinando il principe a quel battesimo che è alle origini del cristianesimo in Russia.

Davanti all’odierno vuoto culturale nel quale, come osservava von Balthasar, "gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica e il bene ha perduto la sua forza di attrazione", si apre di nuovo uno squarcio per l’apostolato del bello. Quello vero, cioè quello della Chiesa di sempre, non macchiato da infiltrazioni sessantottine.

È in questo contesto che assumono tutta la loro importanza storica due documenti che analizziamo in questa edizione di Tradizione Famiglia Proprietà: La via pulchritudinis, del Pontificio Consiglio della Cultura, e L’innocenza primeva e la contemplazione sacrale dell’universo, contenente testi per lo più inediti del prof. Plinio Corrêa de Oliveira.

Due documenti, di diversa autorevolezza e non connessi fra loro, che coincidono tuttavia in modo ammirevole nel trattare uno dei problemi fondamentali dell’apostolato moderno: il ruolo della bellezza.