“Matrimonio” omosessuale a New York:l’ora delle responsabilità
Nella notte di mercoledì 21 giugno, in una concitata seduta a oltranza prima della pausa estiva, e con appena tre voti di scarto, il Senato dello Stato di New York ha approvato una legge che permette le unioni matrimoniali fra persone dello stesso sesso. Insomma, le famigerate “nozze gay”, anche se questa espressione è doppiamente fuorviante: non si tratta affatto di vere “nozze”, né l’atto contro-natura potrà mai essere “gioioso”.
La misura legislativa, già approvata dalla Camera una settimana prima, fa di New York il primo grande stato americano che ha legalizzato le unioni omosessuali.
Un triste primato che ha fortemente spaccato l’opinione pubblica. Davanti al Campidoglio di Albany, opposti schieramenti si sono affrontati a suon di slogan, striscioni e volantini. Da una parte militanti omosessualisti scatenati (“in attesa trepidante”, titolava un quotidiano italiano). Dall’altra parte, organizzazioni conservatrici e religiose, fra cui un folto gruppo della TFP americana che pregava ad alta voce il Rosario.
“Il matrimonio secondo Dio è di un uomo con una donna — dichiarava alle telecamere Robert Ritchie, portavoce della TFP — È così anche dal punto di vista del diritto naturale. Lo Stato non può sovvertire l’ordine naturale né, tanto meno, la legge di Dio”. La foto dei giovani della TFP, che indossano la caratteristica cappa vermiglia col leone rampante dorato, ha fatto il giro del mondo, dal New York Times al Corriere della Sera.
L’approvazione della legge newyorkese è stata accolta dagli omosessualisti in tutto il mondo come una vittoria di portata epocale, scatenando frenetiche manifestazioni di giubilo. Anche in diverse città italiane, nonostante la notte fonda, gli omosessualisti sono scesi in piazza per festeggiare.
Non pochi commentatori hanno voluto leggere nella vittoria dei libertini una cocente sconfitta per la Chiesa cattolica che, per bocca dell’arcivescovo di New York, mons. Timothy Dolan, si era manifestata contraria a questo funesto provvedimento. Palese la soddisfazione dei laicisti. Il Washington Post esultava: “The Church was outgunned (La Chiesa è stata battuta)”.
Nelle settimane precedenti al voto, i media avevano fatto di tutto per presentare i vescovi newyorkesi come i paladini della reazione contro il “matrimonio” omosessuale, salvo poi commiserarsi per la loro sconfitta, presentandola come inevitabile, un “segno dei tempi” di cui la Chiesa farebbe bene a farsene una ragione il prima possibile. “Il trend è ormai inarrestabile — ha commentato il Corriere della Sera — la Chiesa è sempre più politicamente irrilevante”.
La realtà è assai più sfumata. A dirlo non siamo noi ma l’insospettabile New York Times, per cui “la Chiesa è sfuggita alla battaglia”. Dopo aver rilevato come la Chiesa a New York abbia un lungo passato di tolleranza nei confronti degli omosessuali — si pensi solo al gruppo “gay-cattolico” (sic) Dignity — in un recente articolo di fondo, il noto quotidiano della Grande Mela precisava:
“I partigiani dei diritti gay erano sbalorditi. La Chiesa cattolica, l’unica istituzione con l’autorità e il potere sufficienti per opporsi al matrimonio omosessuale, sembrava volesse evitare lo scontro. Mentre il provvedimento si avviava verso il voto finale, il capo della Chiesa di New York, l’arcivescovo Timothy Dolan, ha lasciato la città per recarsi a un convegno a Seattle. Durante tutto l’iter parlamentare, egli non è mai venuto ad Albany né ha fatto nessun grande discorso per contrastare il disegno di legge. E quando l’ha criticato — definendolo ‘immorale’ e ‘pernicioso’ — lo’a fatto nel corso di un’intervista telefonica con una radio locale. (...) La Chiesa cattolica è stata la grande assente in questo dibattito”.
Tutto ciò solleva un quesito, forse più cocente della sconfitta parlamentare: con un’opposizione più combattiva le cose sarebbero andate altrimenti? Si suol dire che il senno del poi è un lusso che non ci possiamo permettere. Forse da questa sconfitta possiamo trarre qualche lezione. Anche per l’Italia...