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Sinodo Pan-amazzonico:
Dalla evangelizzazione all’“esodo interculturale” (Parte 1)

 

di José Antonio Ureta

 

“Kiwxí” è il titolo di una pellicola[1] edita dalla Rete Ecclesiale Pan-Amazzonica (REPAM) in omaggio al fratello Vicente Cañas S.J., missionario spagnolo assassinato nel 1987 a causa del suo intervento nelle dispute territoriali fra indigeni e proprietari terrieri da poco arrivati nel Nord-Est dello Stato del Mato Grosso, in quello che allora era un autentico  Far West brasiliano.

Anni prima, agli inizi degli anni Settanta, il fratello Cañas (“Kiwxí”, per gli indios) e il confratello gesuita padre Thomaz Aquino Lisboa S.J. (“Yauca”), avevano avutoi primi contatti con due tribù indigene isolate in quella regione: i Mÿky e gli Enawene Nawe. Imbevuti del nuovo paradigma missionario post conciliare della “inculturazione”, i due gesuiti non soltanto appresero il dialetto tribale ma si adeguarono poco a poco a tutti gli usi e i costumi degli indigeni.

Il documentario inizia con una scena filmata nel 1985, che riproduce una danza rituale dei Mÿky, in cui si vede in close up la figura danzante di padre Lisboa, “vestito” con gli indumenti richiesti dalla cerimonia. Nella scena successiva, seduto nei pressi di una capanna, egli spiega: “Tutto ciò è pieno di spiritualità, di una profonda conoscenza della natura, di rispetto per la natura. Qui noi mangiamo ciò che loro mangiano, dormiamo nella stessa casa dove loro dormono, nell’amaca che loro stessi fabbricano, perché la fede, la fede che io ho in Cristo, non mi impedisce di vivere questa stessa vita che i Mÿki qui vivono. Perché indossare o no questo oggetto [una penna che attraversa le narici], perforarsi o meno le narici, perforarsi o meno le orecchie, pitturarsi o meno, questo è cultura. Questo non è fede”.

Fede e cultura, inculturazione. Si direbbe che, con la sua penna tra le narici e altri indumenti rituali, padre Lisboa abbia anticipato di oltre 30 anni il “volto amazzonico” che la prossima Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi cerca di dare alla Chiesa Cattolica in questa regione “multietnica, pluri-culturale e pluri-religiosa”.

Di fatto, il Documento Preparatorio dichiara che è necessario ascoltare i popoli indigeni per costruire reti di “interculturalità”, scoprire nuove strade per la pastorale dell’Amazzonia che possano approfondire il “processo di inculturazione” e facilitare “l’inculturazione dei riti” generati dalla saggezza ancestrale dei popoli amazzonici nelle loro celebrazioni. Inoltre, prosegue il Documento, “siamo chiamati come Chiesa a rafforzare il protagonismo dei popoli: abbiamo bisogno di una spiritualità interculturale che ci aiuti a interagire con le diversità dei popoli e con le loro tradizioni”.

Se il Documento Preparatorio insiste sul tema della “inculturazione” è perché si tratta di una parola-talismano che, dagli anni Sessanta, è servita come strumento per un trasbordo ideologico/pastorale inavvertito: il passaggio dall’antico modello di evangelizzazione – che mirava apertamente alla conversione dei popoli nativi e alla nascita fra di loro di una cultura cristiana – a uno stile di missione che pretende soltanto di stabilire un dialogo interreligioso privo di qualsiasi intenzione proselitista e che, al contrario, possa contribuire a rafforzare l’identità culturale pagana degli “evangelizzati”.

Cercheremo di descrivere detto trasbordo/teologico pastorale in due articoli. Questo primo tratterà di come era intesa l’inculturazione della fede cristiana dagli inizi dell’evangelizzazione fino alla prima metà del XX secolo. In quello successivo, come tale inculturazione è intesa oggi.

Il problema dei rapporti fra cristianesimo e cultura è, in realtà, tanto vecchio quanto l’evangelizzazione.  Nello spogliarsi degli obblighi legali dell’ebraismo e nel predicare la Buona Novella alle genti, gli Apostoli affermarono categoricamente l’universalità della salvezza: “Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gl 3, 28). Mentre le altre religioni sono legate a una cultura, il cristianesimo, data la sua origine e il suo carattere soprannaturale, si rivolge a tutti gli uomini e trascende radicalmente qualsiasi contenuto puramente umano. In questo senso, è totalmente esterno alla cultura. Inoltre, il cristianesimo non è una religione del culto o della legge, bensì una religione della fede, per cui l’uomo riconosce la parola di Dio, vi si sottomette ed entra in comunione interiore con il suo Creatore.

Ma, nel senso opposto, il cristianesimo non è pura interiorità, per la fondamentale ragione di essere una religione dell’Incarnazione.  Dio ci parla per mezzo di Gesù Cristo, che è vero Dio e vero uomo e, in quanto tale, si situa storicamente. Nel fondare la religione della Nuova Alleanza, Egli si appoggiò sull’Antica: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento” (Mt 5, 17). Allo stesso modo, per continuare l’opera di Cristo, la Chiesa, lungo la storia, ha dovuto esprimersi con forme e formule che non ha creato dal nulla, ma elaborate sulla base della cultura circostante, dapprima ebraica e poi greco-romana, i cui diversi elementi ha fatto propri, non solo nel suo culto, ma anche nella sua organizzazione e nel suo pensiero[2]. E ha continuato a fare lo stesso quando, più tardi, si è innestata su altre culture. Tuttavia, nonostante si sia legata strettamente a queste, l’aspetto “trascendente” del cristianesimo è rimasto sempre prioritario, perché il senso profondo degli elementi culturali assunti dalla Chiesa è stato radicalmente modificato.

Nonostante questa trascendenza del cristianesimo in relazione a tutte le culture, si può affermare che quella occidentale ha, nei suoi rapporti con la Chiesa, uno statuto particolare, poiché i legami di connaturalità tra la Chiesa e l’Occidente sono doppi e molto stretti.

Da una parte, perché a partire dalla conversione dei barbari e durante il Medioevo, la Chiesa è stata il principale elemento ispiratore della cultura occidentale, compenetrandola e stabilendo con essa una simbiosi tanto profonda da forgiare ciò che ha preso il nome di Cristianità. Dall’altra, perché esiste un legame stretto tra fede e ragione (“fides quaerens intellectum”) e nessun’altra civiltà ha sviluppato tanto la razionalità quanto la cultura classica occidentale, ragion per cui la Chiesa ha assunto e preservato tutto quanto la filosofia greca e il diritto romano comportavano quanto a valori razionali positivi, qualcosa che da quel momento in poi ha cominciato a far parte del suo DNA.

Nel suo famoso discorso all’Università di Ratisbona, Papa Benedetto XVI mise in risalto come il “vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l'interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva”, pertanto “considerato questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell'Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa[3].

Pur mantenendo questa impronta occidentale, che originariamente era latina, i primi missionari inviati a convertire i barbari sassoni seppero adattarsi alle differenze culturali delle popolazioni che volevano evangelizzare, seguendo l’archetipo di argomentazione ad hominem costituito dal discorso di San Paolo all’Areopago di Atene. Per esempio, per favorire la conversione degli anglosassoni, San Gregorio Magno fece sapere al suo inviato in Inghilterra, Sant’Agostino di Canterbury, che doveva permetter loro le feste gastronomiche celebrate in onore dei loro idoli, ma purificandole dall’idolatria e conferendo ad esse un contenuto cristiano.

La Chiesa dimostrò il medesimo rispetto per i valori culturali autentici, o almeno purificabili, dei popoli evangelizzati andando a catechizzare i popoli asiatici. Una dimostrazione eloquente è l’Istruzione che, nel 1659, la Sacra Congregazione di Propaganda Fide inviò ai Vicari Apostolici della Società delle Missioni Estere che operavano nell’Estremo Oriente, la quale raccomandava quanto segue:

“Non abbiate affanno alcuno né persuadete quei popoli affinché cambino i loro riti e costumi, purché non siano apertamente contrari alla religione [cattolica] e alla moralità. Giacché non ci sarebbe nulla di più assurdo che introdurre in Cina [il modo di vita] di Francia, Spagna o Italia o di qualsiasi altra nazione d’Europa. Non dovete introdurre in quelle nazioni le vostre civiltà, bensì la vostra fede, che non solo non disprezza né calpesta i riti e i costumi dei popoli, purché non siano riprovevoli, ma al contrario vuole conservarli e portarli alla perfezione. (...) Non dovete, dunque, paragonare gli usi di quelle nazioni con i vostri dell’Europa, bensì adattare i vostri a quelli. Dovete lodare in essi tutto quanto sia degno di ammirazione.  E per quanto riguarda quelle cose che non meritano lode, sebbene sia vero che in ciò non dobbiamo imitare gli adulatori, siate almeno prudenti a non criticarle eccessivamente. Per quanto riguarda i costumi veramente cattivi, cercate di rifiutarli più col vostro silenzio che con le vostre parole, usando quelle occasioni perché quanti sono decisi ad abbracciare la nostra fede siano i primi a eliminarli a poco a poco e di loro spontanea volontà[4].

Questa Istruzione è un esempio di equilibrio, perché porta il missionario a elaborare un giudizio sulla cultura locale che vuole evangelizzare per poter incorporare tutto quanto è sano o recuperabile e rigettare, in maniera graduale, tutto quanto è inaccettabile per la fede e la morale.

Nell’Istruzione sottostanno, in realtà, due livelli di valori culturali. In un livello superficiale esistono le maniere di vestirsi, di nutrirsi e di alloggiare, gli stili artistici, le forme di trattamento, etc. A un livello più profondo si collocano la maniera di seppellire e incenerire i morti, di concepire la vita familiare e di organizzare i rapporti sociali, i quali necessariamente incarnano o veicolano le concezioni religiose e morali di ogni popolo. Si voglia o meno, tali opzioni ancestrali o sono in armonia o si scontrano con il contenuto della Rivelazione cristiana e in questo ultimo caso, necessitano d’essere purificate o eventualmente, del tutto eliminate.

Pertanto un vero sforzo missionario deve introdurre necessariamente un conflitto nel seno stesso delle culture pagane, da cui non è possibile fuggire con il pretesto dell’adattamento: la Rivelazione illumina le mancanze fondamentali delle visioni pagane e le loro conseguenze pratiche e chiama alla conversione.

Perciò, sarebbe sleale sostenere che in passato i missionari non hanno avuto intenzione di modificare nella loro sostanza le culture non cristiane. La dottrina del Vangelo, la tradizione e, in qualche misura, la visione del mondo sottostante ai dogmi cattolici entravano in contatto in modo consapevole e volontario, tramite il missionario, con i valori profondi delle culture non cristiane. Non si trattava di cambiare quelle culture nel primo livello superficiale, i cui elementi potevano accettarsi ampiamente, ma di convertirle nel secondo livello più profondo: la missione ad gentes cercava esplicitamente una vera metanóia dei popoli evangelizzati, ossia, una ricostruzione dall’interno dei loro valori basilari. In questo compito, alcuni valori culturali – quelli positivi o neutri – sarebbero stati rivitalizzati in un senso cristiano, ma tutti quelli incompatibili con i valori cattolici, avrebbero dovuto essere rigettati, secondo la famosa frase di San Remigio a Clodoveo, primo re franco convertitosi: “Adora ciò che bruciavi, e brucia ciò che adoravi”.

Questa ricostruzione interiore finisce per raggiungere in misura più o meno grande tutta la cultura di un popolo che si converte al cristianesimo. E ciò perché ogni cultura è una realtà integrata in cui tutte le sue componenti, sia superficiali che profonde, formano una unità organica. E poiché il fattore supremo di integrazione di ogni cultura è la religione (o la irreligione, come nella cultura moderna), risulta che non è possibile cambiare di religione senza modificare, in qualche misura, tutti i restanti elementi della cultura di un popolo che abbraccia una nuova fede.

In realtà, tale incarnazione della fede nelle forme culturali dei convertiti al cristianesimo non viene realizzata dai missionari, né prende forma da un’imposizione degli aspetti superficiali della cultura originaria degli stessi. Si tratta di un processo graduale e profondo di cristianizzazione dei propri usi e costumi, compiuto dagli stessi convertiti nella vita di ogni giorno. Sono le nuove comunità cattoliche – e soprattutto i santi che vi fioriscono – quelle che possono fondere i valori del Vangelo nel nucleo della propria cultura, creando una realtà viva che aspira a trasformarsi in una cultura allo stesso tempo profondamente cattolica e interamente locale[5].

Il Medioevo è stato un vero paradigma di evangelizzazione e inculturazione di successo. Gli altri sforzi missionari hanno avuto un successo maggiore o minore nella misura in cui si sono avvicinati a questo ideale. In America Latina l’evangelizzazione intrapresa originariamente dai Re Cattolici e dalla corona del Portogallo, ebbe un’ampia riuscita, sebbene i colonizzatori e, in qualche misura, persino i missionari, fossero imbevuti dei germi malefici dell’umanesimo rinascimentale e della sua concezione materialista e neopagana della vita. Ciò nonostante, e grazie alle innumerevoli apparizioni della Madonna, soprattutto quelle di Nostra Signora di Guadalupe, l’immensa maggioranza dei popoli autoctoni si sono convertiti al cattolicesimo e gradualmente hanno abbandonato le loro superstizioni cristianizzando i loro costumi. Ne è nata una cultura creola, ben distinta dall’europea, che è un insieme del cattolicesimo barocco della Spagna e del Portogallo con la mentalità, il genio e le doti artistiche proprie dei popoli nativi. Questa cultura latinoamericana ha avuto le sue espressioni migliori nei santi del continente, alcuni bianchi creoli come Santa Rosa di Lima o Santa Mariana di Quito, e altri meticci e mulatti, come il popolare frate domenicano San Martín di Porres o l’indigeno San Juan Diego.

Un altro esempio notevole di evangelizzazione e di inculturazione di successo e rispettosa dei valori locali è stato quello delle Filippine. In tutti questi casi, si è prodotta una reale incarnazione del cristianesimo nella cultura locale, preservando da un lato la pluralità delle culture (la cui diversità è voluta da Dio) ed evitando qualsiasi forma di colonialismo culturale, ma dall’altra parte mantenendo nella purezza integrale il contenuto della fede e della morale evangelica.

Vale la pena aggiungere, anche se di passaggio, che come conseguenza dell’azione dei missionari e dei coloni europei si è registrato un grande miglioramento delle condizioni di vita dei popoli evangelizzati.

Le considerazioni precedenti esprimono, con tutte le sfumature del caso, il vero senso dello sforzo di “inculturazione” compiuto dalla Chiesa Cattolica in duemila anni di missione, durante i quali ha adempiuto al mandato divino consegnato agli Apostoli: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt 28, 19).

Nel prossimo articolo vedremo in nome di quali falsi principi questo paradigma è stato sacrificato sull’altare di una “interculturalità” che ha portato i missionari a travestirsi da indigeni da operetta, come hanno fatto i malaugurati gesuiti Kiwxi e Yauca entrando in contatto con i Mÿky e gli Enawene Nawe.

 

[1] https://www.youtube.com/watch?v=RbTnBO5s_vQ

[2] Secondo Pio XII, “la chiesa cattolica non disprezzò o rigettò completamente il pensiero pagano, ma piuttosto, dopo averlo purificato da ogni scoria di errore, lo completò e lo perfezionò con la sapienza cristiana. Così pure accolse benevolmente il progresso nel campo delle scienze e delle arti, che in alcuni luoghi raggiunse altezze veramente sublimi, e lo perfezionò diligentemente innalzandolo a fastigi di bellezza forse prima mai raggiunti. E neppure soppresse del tutto i costumi e le antiche istituzioni dei popoli, ma in qualche maniera li consacrò; le stesse feste pagane, trasformate nel significato e nel rito, piegò a celebrare le memorie dei martiri e i divini misteri” (Evangelii praecones, n°12, http://w2.vatican.va/content/pius-xii/it/encyclicals/documents/hf_p-xii_enc_02061951_evangelii-praecones.html ).

[3] http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/speeches/2006/september/documents/hf_ben-xvi_spe_20060912_university-regensburg.html

[4] JOLICOEUR, Luis, “El Cristianismo aymara: inculturación o culturización?”,  in Cultural Heritage and Contemporary Change, serie V, Latin America, vol. 3, p. 295

[5] Le considerazioni anteriori sui rapporti tra cristianesimo e cultura sono il riassunto di alcuni interventi tenuti nel corso della 29ª Settimana di Missiologia, celebrata a Lovanio (Belgio) nel 1959, riprodotte nel volume Mission et cultures non-chrétienne dito da Desclée de Brouwer. I principali autori, il cui pensiero è stato qui riassunto, sono J. Ladrière (“La culture et les cultures”, pp. 11-44), padre J. Bruls SAM (“L’Attitude de l’Église devant les cultures non-chrétiennnes”, pp. 45-57), padre Segura PB (“L’Initiation, valeur permanente en vue de l’inculturation”, pp. 219-223) e padre Boritius SCJ (Le Groupe familiale et ses formes”, pp.. 236-253).