Editoriale
Segno di contraddizione
Di solito le guerre fanno venir fuori il meglio e il peggio delle persone e dei popoli: da una parte atti sublimi di generosità, di solidarietà e di eroismo prima impensabili; dall’altra tradimenti, bassezze e crimini che a distanza di secoli fanno ancora rabbrividire. Qualcosa di non molto diverso è successo con la pandemia da COVID-19, per tanti versi paragonabile a una guerra.
Se da una parte abbiamo potuto assistere all’eroismo del personale sanitario che si è esposto in prima linea, pagandone un caro prezzo (quasi duecento medici morti, 8.950 infermieri contagiati), dall’altra abbiamo visto un’impennata del 24% nel consumo di pornografia online, specie fra le donne. Se da una parte molte famiglie hanno ritrovato la gioia del vivere insieme, c’è stato anche un boom di richieste di divorzio. “Questa situazione ha fatto esplodere tensioni latenti o ha esasperato situazioni già critiche”, ha opinato Valentina Ruggiero, avvocata esperta in diritto di famiglia.
E anche nella Chiesa, la pandemia ha fatto venir fuori il meglio e il peggio. Se da una parte abbiamo potuto costatare quanto lo spirito di eroismo e di sa- crificio sia ancora presente in tanti bravi ecclesiastici, abbiamo anche toccato con mano tutte le manchevolezze – chiamiamole così – di quella “Chiesa in uscita” auspicata dall’attuale Pontefice.
Ci sono stati sacerdoti coraggiosi che, perfino andando incontro a sanzioni canoniche (per non parlare poi di quelle civili), si sono prodigati per restare vicini ai loro parrocchiani, amministrando i Sacramenti in modo quasi clandestino. Dall’altra parte, però, c’è stata la ritirata ignobile della Gerarchia che, con poche e meritevoli eccezioni, ha abbandonato i fedeli, privandoli della Messa e dei Sacramenti.
Spetta al clero, e in modo speciale alla Gerarchia, la cura delle anime. Ciò implica lo stare attenti ai “segni dei tempi” per orientare i fedeli. Lungo i secoli, le situazioni di pandemia sono state vissute dalla Chiesa come prove sì durissime, ma anche come momenti di grazia e di possibilità di apostolato. In tali circostanze, la Chiesa si è sempre prodigata per amministrare i Sacramenti, per consolare i sofferenti e accompagnare i morenti, esortando tutti alla conversione.
Nei periodi di pandemia, la Chiesa ha sempre moltiplicato le Sante Messe, le Adorazioni Eucaristiche, i Rosari pubblici e le processioni. Sono rimaste nella storia, per esempio, le processioni presiedute da San Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, durante la peste del 1576-1577. D’altronde, la Chiesa esortava i sacerdoti a restare vicino ai fedeli, permettendo perfino che monaci di clausura uscissero dal proprio convento per svolgere attività pastorali, sanitarie e caritatevoli.
Niente di ciò è avvenuto nell’attuale pandemia da COVID-19. Anzi. Perfino anticipando il lockdown del Governo, la CEI ha decretato un draconiano lockdown ecclesiastico. Ed ecco il ricordo forse più terribile che ci lascia questa emergenza sanitaria: la sensazione di immensa orfanità spirituale.
C’è un altro aspet- to, però, che a nostro giudizio è ancor più grave. Abbiamo assistito a una sorta di gara fra i vescovi a chi negava in modo più contundente che questa pandemia potesse avere un senso spirituale, e quindi teologico. Si è evitata accuratamente la parola “castigo”. Di conseguenza, non si è parlato nemmeno di “penitenza” e di “conversione”. Così facendo, questi vescovi hanno violato l’essenza della loro missione: riportare tutto all’aspetto spirituale e teologico, per orientare le anime verso la salvezza eterna.
In questo senso, la pandemia da COVID-19 è stata veramente un “segno di contraddizione per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, perché siano svelati i pensieri di molti cuori” (Lc. 2, 34-35).