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[Da Lepanto, Roma, Anno II, n. 18-19, Settembre-ottobre 1983, pag. 1-7]


Un importante manifesto della TFP nord-americana



Jumbo sud-coreano: fulmine che uccide, ma illumina!



Il crimine perpetrato pochi giorni fa da un aereo da caccia sovietico contro il jumbo sud-coreano ha prodotto nel popolo nord-americano l'effetto di un fulmine notturno: ha purtroppo ucciso numerose persone, ma — proprio come fanno tali luci — ha illuminato con chiarezza terribile un panorama che era coperto da dense tenebre.


Dense tenebre, sì, che da anni vanno oscurando progressivamente gli orizzonti della nostra politica estera, con ovvii riflessi sulla nostra politica interna. E con pregiudizio incalcolabile per tutta la nazione.


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E' opportuno che la realtà posta in tale evidenza dal fulgore irresistibile ma così transitorio di un lampo, non venga dimenticata dalla nostra opinione pubblica. «Remember» la tragedia del jumbo sud-coreano, è il consiglio che la Società Americana di Difesa della Tradizione, Famiglia, Proprietà-TFP offre oggi a tutti i nord-americani. Il fatto, tragicamente riferito dai mezzi di comunicazione sociale il due di questo mese, contiene una lezione illuminante per noi, tale da tracciare per molti anni il cammino delle nostre riflessioni e dei nostri atteggiamenti politici.

Che cosa abbiamo visto? Ciò che poco prima del 1971 — data dell'annuncio del viaggio di Nixon in Cina — cominciammo a cessare di vedere; ciò che già nel 1945 — in occasione della conferenza di Yalta — ci sarebbe stato di gran vantaggio vedere più chiaro.


Sì, la dottrina comunista e la storia del regime comunista in Russia non potrebbero lasciare nel nostro spirito il minimo dubbio sul fatto che il governo di Mosca, animato in tutte le sue azioni da un implacabile imperialismo ideologico, punta ad imporre a tutto il mondo il pensiero, il sistema di governo e di economia, la forma di cultura e il sistema di vita comunista. Meta, questa, fondamentalmente atea, materialista, che vuole l'annientamento di tutte le nazioni indipendenti e di una civiltà che per certi aspetti è la più alta finora raggiunta dai popoli nel corso della storia. Meta ripudiabile non solo a questo titolo, ma a causa dei metodi senza i quali non avrebbe potuto essere ottenuta: la forza bruta, l'aggressione alle nazioni più deboli, lo spionaggio, la continua promozione di agitazione e di sovversione in tutti i popoli, fino a quel capolavoro di perfidia e di abilità che è la guerra psicologica rivoluzionaria.


In conseguenza della caduta del regime zarista alcune nazioni che prima facevano parte dell'impero russo avevano ottenuto la loro indipendenza. Ma questa fu di breve durata, in alcuni casi perfino effimera, poiché lo stivale sovietico le schiacciò in modo inesorabile: furono l'Ucraina, l'Armenia, la Georgia, la Lituania, la Lettonia e l'Estonia. Successivamente, a Yalta, la Russia sovietica divenne padrona di sei nazioni dell'Europa centrale: Polonia, Germania orientale, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria. Analogamente, il potere russo svolse un ruolo di significativa importanza affinché il regime comunista si instaurasse anche in Jugoslavia ed in Albania.


Dopo Yalta, l'Unione Sovietica impose il giogo comunista al Vietnam del Nord, Corea del Nord, Cina, Cuba, Yemen del Sud, Congo, Benin, Etiopia, Vietnam del Sud, Cambogia, Laos, Angola, Mozambico, Granada, Nicaragua.


Tutti i paesi fin qui citati — nonostante l'apparente indipendenza di alcuni di essi, che non illude nessuno — sono caduti sotto il dominio dell'Unione Sovietica, in una situazione ferreamente coloniale.


Non si possono ovviamente qualificare come pure e semplici colonie sovietiche la Cina comunista, la Jugoslavia e l'Albania.


Tuttavia la lista delle nazioni successivamente colpite dall'imperialismo sovietico è ancora più ampia. Essa comprende anche stati che, dopo aver goduto a suo tempo di stabile indipendenza, sono caduti in una situazione analoga a quella dei protettorati classici, con le ambiguità e le mutevolezze tante volte inerenti a certi aspetti del regime di protettorato: Iraq, Siria, Libia, Guinea, Guinea-Bissau, Capo Verde, Sao Tomé e Principe, Tanzania, Zambia, Seychelles, Guiana, Suriname.


In una instabile zona di penombra tra la condizione di protettorato sovietico e l'indipendenza si trovano altre nazioni ancora, che, se in qualche misura sono indipendenti (questa misura varia da nazione a nazione e talvolta di anno in anno), soprattutto non dispongono di tutta la loro indipendenza. E i punti in cui la loro indipendenza è coartata sono sempre determinati dalla preponderanza dell'interesse russo. Queste nazioni sono l'Algeria, lo Zimbabwe, il Madagascar, Malta, la Finlandia (la « finlandizzata » Finlandia...).


Forse in nessuna nazione di questa zona di penombra i contrasti tra le affermazioni di indipendenza e la sussistenza di alcune tracce di dipendenza sono tanto accentuati quanto in Algeria.


Nessuno di questi paesi riconosce, beninteso, di far parte della « zona di penombra » a cui abbiamo ora alluso: ciò non converrebbe né ad essi né all'Unione Sovietica, sempre impegnata a dissimulare il più possibile la propria espansione imperialista. Ma questa zona di penombra esiste. E tutto il mondo lo sa.


Stanno attualmente affrontando dure guerriglie per non lasciarsi coinvolgere dall'Unione Sovietica in qualcuna di queste infelici categorie: El Salvador, Guatemala, Honduras, Colombia, Perù, Filippine.


E' chiaro che gli ingenui, gli utili idioti, solleveranno obiezioni su un punto o sull'altro di questa immensa lista. Dichiareranno certamente che l'uno o l'altro dei popoli che abbiamo menzionato è indipendente. Non è questo il momento di discutere con gli ingenui né con gli utili idioti. Per tranquillizzarli concediamo che questa indipendenza esista, tanto autentica quanto la libertà di movimento del topo su cui il gatto ha steso la zampa... E passiamo oltre.


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Mentre questo impero — tanto oppressivamente vasto che di fronte ad esso quelli di Cesare e di Napoleone sembrano piccoli — è andato costituendosi, l'Unione Sovietica, grazie ai mezzi polimorfici e sottili della guerra psicologica rivoluzionaria, ha conseguito un risultato forse ancora più spaventoso, cioè quello di persuadere sempre di più i popoli dell'Occidente che nella mente dei capi e dei pensatori sovietici si svolgeva un processo, peraltro abbastanza enigmatico, di addolcimento mentale e morale. Così Mosca è riuscita ad incutere in numerose correnti di opinione dell'America e dell'Europa la convinzione che se l'Unione Sovietica fosse trattata senza prevenzione ed aiutata dalla fornitura di risorse finanziarie economiche e tecniche di vario ordine, l'imperialismo comunista si trasformerebbe in lirici propositi di pace...


La storia non comprenderà mai come tale illusione abbia potuto guadagnare terreno nello stesso momento in cui la Russia comunista andava stendendo le sue grinfie su tutti i continenti. Peggio ancora, nello stesso momento in cui, all'interno delle nazioni sulle quali soffiava questa tiepida e fatale illusione, il proselitismo ideologico, l'agitazione e talvolta perfino la sovversione stavano facendo progressi senza misura.


Questa illusione ha avuto il suo peso per spingere il popolo nord-americano ad accettare la presenza insolente ed aggressiva delle grinfie sovietiche a due passi dalle nostre coste, nella sventurata Cuba. Essa ha sensibilmente contribuito a che il presidente Nixon, visitando la Cina Rossa nel 1972, aprisse l'era fatale della « détente » con il mondo comunista. Trionfava così la « politica della mano tesa » già da molto tempo lanciata da Mosca. La coesistenza pacifica si presentava come l'unica ragionevole. La « Ostpolitik » di Bonn, come quella del Vaticano, si sviluppavano in tutta la loro portata. Il sinistrismo cominciò ad infiltrasi rapidamente in tutte le religioni. Ciò che poi venne definito come la « caduta delle barriere ideologiche », ma che risale a molti anni prima di questa definizione, non solo si attuò nelle relazioni internazionali, ma aprì le porte delle più rispettabili istituzioni dell'Occidente, delle più illustri o influenti, ai comunisti.


Grazie all'autorizzazione data da Mosca a che una delegazione di ecclesiastici della chiesa greco-scismatica di obbedienza sovietica fosse presente al Concilio Vaticano II con funzioni di osservazione, l'illustre assemblea si astenne dal condannare il comunismo. E sotto l'influenza di Henry Kissinger, durante le presidenze di Richard Nixon e di Gerald Ford e quindi nel periodo presidenziale di Jimmy Carter, tutto questo produsse nell'ambito di azione del nostro paese i frutti tragici ben conosciuti, tra i quali sono da ricordare soprattutto la caduta del Vietnam e della Cambogia e la perdita da parte nostra del Canale di Panama.


Il miraggio dell'« addolcimento » della psicologia sovietica non solo è stato presente in tutto questo, ma ha anche avuto una notevole parte di responsabilità nel fatto che i paesi dell'Occidente — e il nostro più che tutti gli altri — si siano messi a fornire, con profusione crescente, all'Unione Sovietica, alle sue « colonie », ai suoi « protettorati » e ai paesi della « zona di penombra », aiuti di ogni genere. Di maniera che l'Occidente è giunto ad essere in buona misura il finanziatore di un nemico che giorno dopo giorno è andato assumendo di fronte a sé le proporzioni di un Leviatano. Con ciò si è venuta prolungando la prigionia delle nazioni di cui tanto desideriamo la libertà.


E tuttavia niente di tutto questo ha aperto gli occhi degli ostinati. Più recentemente, neppure l'aggressione al valoroso e già glorioso Afghanistan è servito a mostrare l'inconsistenza del proclamato addolcimento mentale e morale dei despoti del Cremlino.


Or non è molto, i settori previdenti dell'opinione pubblica hanno avuto un sussulto davanti all'atto del presidente Ronald Reagan che ha affidato la direzione di un'alta commissione incaricata di studiare la nostra politica per l'America centrale all'uomo sul quale pesa la responsabilità della caduta del Vietnam.


Ma in nessun campo il mito dell'addolcimento dello spirito sovietico ha prodotto un effetto più aberrante come in ciò che riguarda il disarmo nucleare, unilaterale, degli USA.


Il più elementare patriottismo spinge l'uomo a preferire la propria morte alla distruzione del suo Paese. Con quali aggettivi i grandi patrioti del nostro passato qualificherebbero l'impiego della formula « better red than dead », meglio rossi che morti, la quale enuncia, nel fondo, l'intenzione di molti americani di consegnare la nazione all'imperialismo sovietico a patto di salvare la propria pelle?


Di più, di peggio. Con quale aggettivo i grandi giganti della Fede di cui ci parlano l'Antico ed il Nuovo Testamento, le cui imprese ci sono narrate dalla storia ecclesiastica, qualificherebbero i nord-americani che, adducendo principi cristiani, hanno reclamato il disarmo nucleare unilaterale dell'America del Nord per salvare — come se fossero valori supremi — le vite di uomini mortali, nonostante in tal modo consegnassero alla belva dell'ateismo comunista i pochi resti preziosi che ancora esistono della Civiltà Cristiana? Che direbbero essi nel sapere che tra i leaders di tali nord-americani figurano non pochi vescovi della Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana? Malgrado abbia già ottenuto alcuni risultati significativi, l'opera di questi nord-americani è per il momento in declino, anche se pronta a sollevare la testa alla prima occasione. E sarebbe perfettamente adeguato che, se ciò accadesse, si levasse sul loro cammino Matatia esclamando: « Ecco, le nostre cose sante, la bellezza e la gloria nostra, sono state distrutte e i pagani le hanno profanate. Perché vivere ancora? » (I libro dei Maccabei, cap. II, versetti 12-13); o anche Giuda Maccabeo gridando: « è meglio per noi morire in battaglia, che vedere tante calamità sul nostro popolo e sul nostro santuario » (I libro dei Maccabei, cap. III, versetto 59).


Il crimine del jumbo della Korean-Airlines ci mostra, come un fulmine che uccide, ma che illumina ciò che vi è di ingannevole nel mito dell'addolcimento psicologico dei sovietici. Si è reso chiaro che gli uomini che abbiano preferito esser rossi che morti cadranno nelle mani dei carnefici oppressori del Vietnam, degli artefici, in Cambogia, di una delle più spaventose tragedie di tutti i tempi, dei promotori della costruzione in Siberia di un gasdotto realizzato dal lavoro di schiavi. Questi stessi uomini predicano intanto in Occidente l'abbattimento dei regimi vigenti, sotto il pretesto che non sono sufficientemente liberali!


A questi nord-americani serva di lezione la tragedia del jumbo sud-coreano!


Tanto più che neghiamo che il mondo sia ridotto alla scelta tra la capitolazione davanti al comunismo e la tragedia atomica. Si può sperare che Dio onnipotente risparmi questa tragedia ai popoli che sappiano amarLo più della propria vita. Ma è possibile che non la risparmi a coloro che amano la vita più di quanto amano Lui.


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« Et ecce sancta nostra, et pulchritudo nostra, et claritas nostra desolata est, et coinquinaverunt ea gentes. Quo ergo nobis adhuc vivere? ».


« Ecco che tutto quanto abbiamo di santo, di illustre e di glorioso è devastato ed è stato profanato dai popoli. Che vale dunque vivere ancora? ».


O anche Giuda Maccabeo che grida:


« Quoniam melius est nos mori in bello, quam videre mala gentis nostrae et sanctorum ».