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Le premesse utopistiche del tribalismo ecologista

di Guido Vignelli

 

La svolta ecologista della “postmodernità”

La cultura detta “postmoderna” presenta alcuni aspetti alquanto sorprendenti, specialmente se paragonati a quelli vigenti fino a pochi decenni fa. Uno di essi è la tendenza ecologista a riscoprire, rivalutare e proporre come modello ciò che è regressivo, primitivo, selvaggio e tribale.

Fino a ieri s’incensava l’idolo dell’Uomo padrone della natura, oggi invece s’incensa l’idolo della Natura padrona dell’umanità e del suo destino.

Ieri la cultura dominante era quella razionalista e scientista, tesa a formare una civiltà progredita e a costruire una società burocratica e tecnocratica; oggi invece prevale la moda di una cultura irrazionalista e magica, tesa a formare una civiltà regressiva.

Ieri si progettava una società colta, stabile, ricca, comoda e conquistatrice; oggi invece si progetta una società ignorante, precaria, povera, scomoda e rinunciataria; oggi si vuole “decostruire” la società trasformandola in una comunità anarchica e tribale.

Questo “ritorno alla natura” non è poi così nuovo come sembra. Se ricordiamo la storia del processo rivoluzionario, ci accorgiamo che – sotto l’apparenza di progettare un futuro costruito sulla base della razionalità scientifica e tecnologica – esso ha spesso sognato di tornare a un passato perduto, a una origine incontaminata, a un “paradiso terrestre” nel quale l’umanità sarebbe vissuta felice perché ignara di tutto, priva di tutto e libera da tutto.

 

La scoperta di un modello sociale tribale

La storia è piena di progetti utopistici che s’illudono di ricuperare una felicità perduta ritornando a una origine incontaminata. Essi esplosero nel XVI secolo, proprio con l’avvento di quella “civiltà moderna” che pretese di porre il sapere, il volere e il potere al servizio dell’utopia, al fine di costruire una società libera e felice.

Poco dopo la scoperta delle Americhe, le navi che raggiungevano i nuovi continenti cominciarono a trasferirvi non solo sacerdoti, geografi, naturalisti e commercianti, ma anche alcuni “filosofi” che oggi chiameremmo etnologi o antropologi, ansiosi di studiare la vita dei popoli scoperti.

Quegli studiosi erano delusi dalla loro civiltà, accusata di essere complicata, artificiosa, ingiusta e lacerata da divisioni e da guerre; si ricordi che era da poco scoppiata la rivoluzione protestante. Nei loro viaggi, essi cercavano un “paradiso terrestre” da riscoprire, un’alternativa di civiltà, un nuovo modello di società da sostituire a quella della vecchia Europa. Usando il linguaggio oggi di moda, possiamo dire che essi abbandonavano il “centro” per andare alla ricerca delle “periferie”, rifiutavano un esclusivismo al fine di “aprirsi all’altro”, una uniformità al fine di scoprire le diversità.

Fu così che alcuni di quei sapienti non si limitarono a studiare spassionatamente la vita dei selvaggi, ma la interpretarono secondo le proprie categorie. Essi s’illusero che la società tribale fosse priva di proprietà, commerci, famiglie, istituzioni, leggi, privilegi, gerarchie, autorità politiche e religiose; credettero che i selvaggi vivessero liberi da certezze, desideri, scrupoli, sicurezze, aggressività, guerre; una vita informe e indifferente che oggi chiameremmo buddista oppure vegana (sebbene i selvaggi si nutrano volentieri di animali).

Secondo quegli studiosi, tutte queste privazioni rendevano i selvaggi non solo ignoranti e ingenui ma anche pacifici, casti, umili, altruisti, generosi, saggi; essi non provavano le conseguenze del Peccato Originale perché godevano di una originaria innocenza. Insomma, quegli studiosi immaginarono di aver scoperto nella società tribale la comunità ideale che sognavano, per cui la elevarono a modello e la proposero agli europei come un’alternativa alla loro corrotta civiltà.

 

Le utopie selvatiche del Rinascimento e dell’Illuminismo

Proprio un periodo storico come il XVI secolo, che segnò il trionfo della cultura (umanistica), della civiltà (neopagana) e della società (laicizzata), vide anche il parallelo sorgere di utopie che pretendevano di mobilitare il sapere e il potere per ritornare al “paradiso terrestre”.

Già alcuni movimenti ereticali protestanti, come quelli anabattisti, avevano sognato una società priva non solo del Papato ma anche di ogni autorità religiosa, potere politico, focolare domestico e proprietà privata.

Anche alcuni esponenti del cosiddetto “pensiero erudito” rinascimentale – che era scettico in religione, libertario in politica e libertino in morale – sognò una società felice perché liberata dai vincoli religiosi, politici e giuridici. Ad esempio, un allievo di Montaigne, il francese Etienne de la Boétie, auspicò che l’Europa diventasse un continente «senza Fede, senza Re e senza Legge».

Contemporaneamente, tra il XVI e XVII secolo, illustri umanisti elaborarono precisi progetti utopistici. Cominciò (san) Thomas More che, con il suo celebre libro intitolato Utopia (1516), lanciò il nome della cosa, e proseguì il domenicano Tommaso Campanella con la sua Città del Sole (1602); si trattava però di fantasie letterarie che non pretendevano d’imporsi alla società reale.

Ma poi, l’anglicano sir Francis Bacon con la sua Nuova Atlantide (1612), e il puritano Gerard Winstanley con la sua Legge della Libertà (1652), cominciarono a proporre l’utopia come programma ideale da realizzare scientificamente usando le tecniche (soprattutto politiche ed economiche) inventate dalle nascenti “scienze sociali”.

Anche per evitare censure ecclesiastiche, molti autori proposero società ideali usando la finzione letteraria della scoperta geografica di società lontane. Gabriel Foigny, nel suo libro sul fantasioso viaggio verso La terra australe (1676), immaginò una società primitiva composta da individui asessuati polisessuati, dalla sessualità ambigua o mutante, come progettato dalla teoria dei genders. 

Questa letteratura utopistica tribaleggiante continuò Lungo il XVIII secolo, nonostante la società illuministica si ritenesse colta, scientifica, pragmatica e raffinata. Scrittori come Fontenelle, Meslier, Deschamps e Rétif de la Bretonne sostennero che la felicità è frutto della “semplicità”, intesa però come rinuncia a dogmi, leggi, doveri, obblighi e vincoli sociali. Morelly ne trasse il Codice della Natura (1755), Rousseau la pedagogia della “spontaneità selvatica” e Diderot quel progetto politico che poi verrà tentato durante la Rivoluzione Francese, con i risultati che conosciamo.

 

L’utopia tribale del socialismo

Nel XIX secolo, quando agli etnologi e antropologi si aggiunsero i politologi e i sociologi, alcuni di loro studiarono il sistema sociale delle società amerindie pre-colombiane (Azteca e Inca). Benché fossero gravemente tirannici, oppressivi, schiavisti e anche stragisti, quelle società vennero elogiate come “solidali”, ossia viventi in simbiosi con la natura e capaci di fondere innumerevoli individui in una entità collettiva che agiva compatta e potente come un “grande animale”.

Alcuni autori socialisti opposero al modello tecnocratico del positivismo quello primitivo del “terzo mondo”. Il modello proposto fu ancora quello della vita tribale delle comunità selvatiche. Essi sognarono una società liberata dall’autorità religiosa, politica ed economica, in cui tutto fosse collettivizzato: dal matrimonio alla educazione della prole, dalla proprietà all’eredità, dal lavoro al divertimento, dall’insegnamento all’abitazione, dal cibo all’abbigliamento. Nascita, crescita e morte dell’uomo dovevano subire una socializzazione che presupponeva la secolarizzazione e l’impoverimento. Ad esempio, il socialista utopista Fourier progettò un sistema sociale simile a quello degl’imperi amerindi, nel quale ogni aspetto della vita individuale fosse sottoposto a un collettivismo di tipo tribale.

Tale modello primitivo però sedusse anche il socialismo preteso scientifico. Lo stesso Marx programmò la rivoluzione comunista per abolire quei fattori alienanti e oppressivi – ossia proprietà, denaro, commercio, famiglia, educazione, legge, autorità politiche e religiose – che hanno dominato la storia dalla società patriarcale fino a quella borghese. Quest’abolizione permetterebbe di ritornare a quella ideale comunità primordiale, a quella “orda primitiva” immaginata da Engels, in cui “tutto è in tutti”, tutti sono uguali tra loro, mancano differenze non solo nell’avere e nel potere, ma anche nel pensare, nel volere e nel sentire.

A questo mirarono i primi esperimenti tentati dal regime leninista in Russia e da quello maoista in Cina; la sanguinaria dittatura dei Khmer Rossi in Cambogia fu un tragico tentativo, ovviamente fallito, di sradicare un intero popolo dalla sua civiltà deportandolo nelle foreste, al fine di sperimentarvi una vita selvaggia di tipo tribale.

Il socialismo “postmoderno”, partito dalla rivoluzione sessuale ed ecologista di Reich, Fromm e Marcuse, sperimentata a partire dal Sessantotto, non ha affatto rinunciato al proprio progetto originario: lo ha solamente ridotto alla sua dimensione irrazionale, privativa e distruttiva; è la “mano sinistra” che prevale sulla “mano destra”, il solve sul coagula.

Stando così le cose, non c’è da meravigliarsi se il termine stesso di “Rivoluzione” (dal latino revòlvere) esprima non un avanzare verso il futuro ma un ritornare al passato, ossia al perduto e rimpianto stato primordiale di perfezione e di felicità, immaginato come un “regno della libertà e dell’eguaglianza” assicurato dalla rinuncia alla civiltà. Pertanto, l’alternativa che oggi si prospetta è quella di scegliere tra la barbarie rivoluzionaria e la civiltà cristiana.