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Come nacque lo spirito di cavalleria


di Plinio Corrêa de Oliveira


In cosa consiste, propriamente, lo spirito di cavalleria? Si tratta del coraggio nel combattimento?


Lo spirito di cavalleria è, prima di tutto un modo di essere, una mentalità. È fatto di logica, di coerenza e di forza d’anima che conferiscono all’uomo un’idea precisa della sua dignità in quanto uomo e in quanto cattolico. Una dignità che gli attribuisce una determinata posizione nella scala dei valori umani, che egli deve fare rispettare.


È proprio dello spirito di cavalleria amare quest’ordine gerarchico, e amarlo in modo combattivo. Il cavaliere non tollera nessuna forma di violazione di detto ordine, ed è disposto a intervenire anche con la forza per ristabilirlo. Questo, è chiaro, secondo le regole del buon senso. Il cavaliere è abitualmente serio, mai giocoso. È gentile ma non scherza e, soprattutto, con lui non si scherza. Le persone devono capire che si farà rispettare.


Lo spirito di cavalleria è uno spirito elevato che ha sempre presente l’ordine gerarchico. E, siccome, al vertice di quest’ordine c’è Dio, più che la sua personale dignità, il cavaliere rispetta e difende i diritti di Dio. In altre parole, l’ordine che il cavaliere rispetta e difende, prima di tutto, è quello cattolico. Il cavaliere pratica la religione non solo con tutta naturalità, ma con una certa nota di fierezza e di sfida propria del combattente. Guai a chi osa burlarsi della sua religiosità!


L’amore verso Dio del cavaliere proviene da una nozione molto limpida della Sua infinità, della Sua gloria, della Sua grandezza, del Suo splendore, della Sua bontà e misericordia. È proprio perché il cavaliere possiede questa nozione in alto grado che egli mostra, nei confronti di Dio, un devoto e profondo rispetto. Questo rivela una grande profondità di anima. Perché, per arrivare a questa nozione e a questo rispetto, serve molta profondità spirituale.


Profondità non vuol dire necessariamente intelligenza. Il cavaliere non è necessariamente un intellettuale. Egli è molto logico, molto coerente e molto forte. Non ha paura di tirare tutte le conseguenze delle sue idee, per sé e per la società, a qualsiasi costo.


Perciò il cavaliere ama la sublimità. Egli contempla tutto nel suo aspetto più elevato. Per questo ama le cose serie, elevate, nobili e non quelle banali e senza importanza. Per esempio, di fronte al campanile di una chiesa egli ne cercherà il significato sublime. Davanti ad un’armatura medievale, egli cercherà i suoi aspetti più elevati. Il cavaliere è naturalmente rivolto all’adorazione.


Questo spirito si traduce poi nel coraggio del cavaliere. Un uomo non mette a rischio la propria vita senza una nozione esatta del motivo di quel rischio, e senza un amore elevato per ciò che deve difendere. Se questa nozione o questo amore difettano, il cavaliere non sarà coraggioso nell’ora della lotta. Il coraggio del cavaliere è, dunque, frutto dello spirito di Fede portato fino alle sue ultime conseguenze.


Il pulchrum della cavalleria


Noi siamo membri della Chiesa militante. Lo spirito militante della Chiesa è intimamente collegato alla condizione di guerriero, che raggiunge l’apice nello spirito di crociata. Come possiamo definire questo spirito?


Il crociato aveva una nozione chiarissima del valore mistico e metafisico della crociata. Egli si lanciava con impeto nella lotta per la riconquista del Santo Sepolcro di Nostro Signore Gesù Cristo perché ne comprendeva tutto il suo significato.

Cosa vedeva, per esempio, san Luigi IX di Francia quando portava, a piedi nudi e vestito da penitente, l’ostensorio che conteneva uno spino della Passione di Nostro Signore? Quello spino aveva toccato l’Uomo-Dio, aveva cioè un nesso diretto con Lui. Cosa che s. Luigi percepiva nitidamente, sia dal punto di vista soprannaturale che metafisico. Da questo scaturiva il pulchrum della crociata.

La combattività è la disposizione a sacrificare la vita per qualcosa che ne valga la pena. Questo sacrificio totale l’uomo lo compie per uno di due motivi: o per vanità o per amore verso sublime. Il vero cavaliere combatte sempre per amore del sublime.

Immaginiamo il cavaliere come un crociato, perché il perfetto cavaliere è il crociato, cioè colui che ha portato lo spirito e le azioni proprie della cavalleria alla loro massima espressione. Immaginiamolo come un crociato che carica l’avversario di uno stato spirituale allo stesso tempo teso e calmo, lucido e tuttavia entusiasta. Il primo elemento che spicca non è il cavallo né l’armatura ma l’anima del cavaliere. È proprio perché vediamo un certo riflesso dell’anima del cavaliere nell’armatura e nel modo di condurre il cavallo, che possiamo distinguere in lui una bellezza che è il lumen della cavalleria.


Il pulchrum si riflette nell’anima

Il pulchrum di un ideale si riflette nell’anima di chi lotta per esso. Prendiamo l’esempio di s. Giovanna d’Arco. È impossibile non vedere il pulchrum della sua figura: quello della vergine che fa la volontà di Dio. Siccome Dio voleva fare di lei una combattente, dalla sua debolezza verginale s. Giovanna aveva tratto forze straordinarie che le avevano permesso di sconfiggere gli uomini più potenti del tempo. Era una fanciulla delicata, fragile e fine come conviene al gentile sesso, e tuttavia era un grande guerriero. Come si spiega questo?


È per l’equilibro interno fra tutte le potenzialità della sua anima, anche quando sembravano contraddittorie, come la forza dell’uomo e la delicatezza della giovane. Il pulchrum della sua figura, però, proveniva prima di tutto dal fatto che era un’anima a cui Dio aveva parlato per mezzo delle “voci”. Ella aveva sentito la voce di Dio e l’aveva accolta. In ogni momento della sua vita abbiamo l’impressione che s. Giovanna d’Arco irradiasse luce. Perfino nel momento tragico in cui le fiamme cominciavano a bruciarla sul rogo, ella risplendeva più delle stesse fiamme. Era il riflesso del grande amore per Dio che portava nell’anima.

 

L’anima del cavaliere

Caricando l’avversario, il cavaliere sa che corre un rischio di morte, che accetta per amore di Nostro Signore Gesù Cristo, per liberare il Santo Sepolcro. Si lancia contro l’avversario con un impeto distruttivo che è direttamente proporzionale al suo amore per il Santo Sepolcro.

Ama il Santo Sepolcro con tutta l’anima perché lì giacque il Corpo sacratissimo di Nostro Signore Gesù Cristo. Egli sa che fu in quel Sepolcro che si operò la Risurrezione, in mezzo a splendori inimmaginabili, alla presenza di miriadi di angeli che cantavano e acclamavano Nostro Signore nel momento in cui la Sua Anima santissima tornava nel Suo Corpo. Il sole brillò con luce più diafana, i fiori diffusero un profumo più intenso, le acque rumoreggiarono con più forza, il mare diventò più blu, gli uccelli cantarono con più allegria. Soprattutto, il Cuore Immacolato di Sua Madre Santissima si rallegrò intensamente.

Il Sepolcro, in cui erano successi tutti questi fatti prodigiosi, era stato espugnato dai seguaci di Maometto. Era caduto nelle mani degli avversari di Nostro Signore Gesù Cristo e della Sua Chiesa. Era necessario liberarlo a qualsiasi costo! Il cavaliere sente questo nel più profondo di sé, e sa che un’enorme schiera di fratelli nella Fede lo accompagneranno. Ma sa anche che troverà davanti a sé una moltitudine di nemici della Fede.

Egli sa che Nostro Signore, seduto alla destra di Dio Padre in Cielo, si aspetta da ogni cavaliere la determinazione assoluta di sconfiggere l’avversario. Determinazione che non è solo una velleità, una fantasia, ma una certezza: io libererò il Santo Sepolcro! Donde la mobilitazione di tutti i poteri dell’anima, di tutta la sua perspicacia, di tutta la sua capacità di riflessione, di modo che l’avversario non muova un passo, non faccia un movimento senza che la sua anima vibri, piena di vigilanza e di discernimento sacrale, in attesa dell’occasione per scagliare il colpo.

Anzitutto, nell’anima del cavaliere vi è la percezione entusiasta del bene per il quale egli lotta, accompagnata dal rigetto del male che gli è opposto. Da qui la determinazione di sacrificare tutto per questa lotta e, quindi, una mobilitazione di tutte le sue fibre che determina un’attenzione acutissima, un discernimento finissimo di ogni opportunità per colpire, un desiderio infuocato e pieno di zelo di non lasciare passare la minima occasione senza approfittarne fino in fondo.

Il cavaliere sa, però, che ciò non basta. È bene essere vigilante. Ma è ancora meglio se, oltre ad essere vigilante, egli sarà anche forte. Egli deve essere consapevole delle proprie possibilità di azione come conosce i punti deboli dell’avversario. Deve conoscere quali movimenti del braccio compiere perché il colpo di lancia sia più profondo, quale inclinazione deve avere il suo corpo perché il taglio della sua spada sia più mortifero, deve conoscere la migliore posizione della testa, delle gambe, dei piedi sulle staffe e così via. È molto attento a tutto questo perché sa che un attimo di distrazione potrà rovesciare la fortuna e fargli perdere lo scontro.

In un solo sguardo, nell’esaminare i punti deboli dell’avversario, egli considera anche i propri punti deboli, ma anche i suoi punti di forza. Regola tutto in modo che, con una sapienza straordinaria,  il suo colpo sia il più efficace possibile, e faccia il maggior male al nemico. Mobilita, cioè, tutta la sua forza distruttiva.

La parola “equilibrio” è stata spesso profanata dagli irenisti fino a perdere il suo vero significato. Equilibrio non è la posizione di un uomo seduto pacatamente su una poltrona. Il vero equilibrio è quello del cavaliere sul suo cavallo, mentre realizza con la massima intensità tutte le sue potenzialità.

 

Cavaliere: riflesso della Sacra Sindone

Cosa fa sì che quando il cavaliere lotta in questo modo per Nostro Signore Gesù Cristo, qualcosa della Sacra Sindone si rifletta nella sua anima?

Quella maestà sfolgorante, sovrana, affermativa e rigettante che vediamo nella Sacra Sindone di Torino fa di Nostro Signore Gesù Cristo il modello perfetto del cavaliere. Sulla Sacra Sindone non vediamo il minimo segno di condiscendenza. Quelle palpebre si sono chiuse nel rigetto e nell’orrore del peccato commesso dagli uomini. Si nota la matrice dell’incompatibilità e dell’odio più completo contro il male. È una lucida, ferma e serena ostilità verso i suoi carnefici, un rigetto totale della benché minima condiscendenza verso i suoi nemici, una posizione di totale orrore del peccato e di coloro che lo praticano. Se Egli montasse sopra un cavallo impugnando la spada — come ci viene mostrato nell’Apocalisse (Apoc. 19, 11ss) — non avrebbe nemmeno bisogno di un’armatura. Egli si butterebbe nella mischia e vincerebbe perché nessuno oserebbe niente contro di Lui!

Qual è l’aspetto più bello dell’anima del cavaliere, e che dà unità di bellezza al suo profilo morale, alle sue armi, al suo cavallo e ai suoi gesti? È la maestà di Nostro Signore Gesù Cristo che si riflette in lui, e che fa sì che quando egli attacca, l’avversario abbia più paura di lui che della sua lancia. La migliore arma del cavaliere non è la corazza, non è lo scudo, non è la spada, non è la lancia bensì lo sguardo, la fisionomia. È la forza d’animo con cui egli giudica, rigetta il male e parte per la sua distruzione. Giova avere tutti i mezzi materiali. È nel disegno della Provvidenza che egli possa contare su questi mezzi. Ma egli sarà un vero cavaliere solo quando i suoi avversari capiranno che questi mezzi sono per lui meri accessori, e che la sua vera arma è lui stesso.

 

La sorgente della cavalleria

La bellezza della Cavalleria viene dall’idea del Santo Sepolcro calpestato, profanato, infangato, in balia dei musulmani, e dal conseguente bisogno di lottare con la spada per far cessare quella malvagità. Nella grazia che animava i crociati, il Santo Sepolcro appariva sotto una luce che non era la luce comune. Il Santo Sepolcro era considerato sacro in funzione della persona di Nostro Signore Gesù Cristo. Era come se, in qualche modo, Nostro Signore vi fosse veramente presente, disprezzato e ingiuriato.

Agli occhi dei crociati, Nostro Signore appare in tutta la Sua altezza, nella Sua infinita dignità, inondato da una luce divina. Ma, nonostante questa dignità, Egli manifesta una dolcezza come mai nessuno ha saputo fare. È quasi un paradosso: un’immensa elevatezza che patisce tuttavia le ingiurie con dolcezza. Proprio per questo la Sua elevazione splende con un fulgore speciale. Non è solo un’elevazione regale, ma un’elevazione che, per la dolcezza, si fa amare, attrae a Sé, offre perdono...  La semplice grandezza non possiede questo fascino. La Sua è un’elevazione che si inchina misericordiosa e amorevole sopra coloro che la contemplano, abbassandosi al loro livello. E tuttavia viene trattata in questo modo!

Questa elevazione è rappresentata  nel portamento incredibilmente  nobile e, allo stesso tempo, profondamente addolorato di Nostro Signore Gesù Cristo. Egli è stato torturato in un modo ingiusto oltre ogni limite. Tuttavia, la sua trascendenza assoluta, anche quando ingiuriata e miserevolmente profanata, desta in Lui un dolore che non è collera, ma una tristezza profonda che si esprime con la dolcezza. Questo è un altro apparente paradosso. Per chiunque avesse sofferto tanto come Lui e in modo ingiusto, la reazione normale non sarebbe di dolcezza bensì di indignazione e di voglia di maledire. Ma non Lui. In Lui si nota un dolore profondo che produce una dolcezza d’una caratura morale tutta particolare, molto attraente, che invita all’umiltà e alla contrizione. Ma una dolcezza che ha piena coscienza di essere fatta per conquistare!

È proprio il brutale rifiuto di questa dolcezza da parte dei musulmani che suscita l’ira dei crociati. Ecco l’oggetto diretto del loro furore. Se l’infinita dolcezza di Nostro Signore non è capace di intenerire il cuore dei musulmani, allora bisogna ristabilire l’ordine sul filo della spada! Donde una formidabile combattività, che scaturisce dalla percezione dell’inutilità di ogni sforzo pacifico, e dal bisogno di infliggere un castigo e una riparazione. Davanti al fallimento della dolcezza, il crociato mette mano alla spada. E parte indignato per sconfiggere con la forza coloro che la dolcezza non è riuscita a smuovere.

Questo si sente già dal primo momento della crociata, ancor prima del Deus vult! del beato Urbano II. I crociati avevano piena coscienza del tremendo rifiuto dei musulmani, un rifiuto che ai loro occhi configurava un peccato consolidato, brutale e irrimediabile. Ecco la causa profonda della loro indignazione e del loro furore, frutto dell’atto di amore di un’anima che si era lasciata toccare dalla dolcezza di Nostro Signore Gesù Cristo.

Vedendo che tutta la maestà e tutta la dolcezza di Nostro Signore Gesù Cristo non solo non conquista quella gente ma, anzi, la incita a ingiuriarLo e a percuoterLo, il crociato riceve una grazia speciale per vendicare il nome di Dio. Ma questa vendetta sarà perfetta solo se il crociato non vi introdurrà il tumultuare delle sue passioni personali. Egli misura tutta l’immensità del peccato fatto, e il desiderio di voler vendicare Nostro Signore per amore disinteressato e puro. Questo è esattamente il cavaliere indomito, che ha la forza per caricare il maomettano, spada in mano.

Ecco la genesi psicologica di questo furore, che proviene dal modo in cui i crociati, nel Santo Sepolcro, hanno “visto” Nostro Signore Gesù Cristo offeso dai musulmani.

È solo a questa luce che si comprende l’impeto dei crociati. Non è l’impeto del soldato delle due Guerre mondiali, che lottava per questioni di confini nazionali violati. I crociati non lottavano per l’Alsazia-Lorena, per quanto legittima possa essere questa rivendicazione, ma per qualcosa di molto più nobile.

[* Brani tratti da diverse conferenze e riunioni del prof. Plinio Corrêa de Oliveira. Senza revisione dell’autore.]