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"Periodo di riflessione"

 

La strada smarrita

 

A proposito degli scandali di pedofilia nel clero, Benedetto XVI — a chi in questo frangente va tutta la solidarietà dei cattolici —ha voluto aprire per la Chiesa un “periodo di riflessione”, le cui linee generali egli stesso ha esposto in diversi pronunciamenti.


La campagna pubblicitaria a proposito degli scandali di pedofilia omosessuale nel clero che negli ultimi mesi ha colpito la Chiesa cattolica, giungendo perfino a toccare il Soglio Pontificio, ha destato sgomento e preoccupazione.


Fino a qualche decennio fa, era comune tra i cattolici, e anche tra molti non cattolici, considerare la Chiesa come un baluardo di ordine, di austerità e di saggezza, in mezzo a un mondo continuamente soggetto a cambiamenti destabilizzanti. I suoi solidi insegnamenti morali rasserenavano molte coscienze. La sua stabilità istituzionale fungeva da punto di riferimento. Il suo Magistero offriva una luce in mezzo al caos del pensiero moderno. Stat Crux dum volvitur orbis. La Croce, cioè la Chiesa, restava ferma mentre il mondo sembrava impazzire.

Tuttavia, leggendo le notizie degli ultimi mesi, al di là dell’evidente intento denigratorio nei confronti della Chiesa, è impossibile non porsi la domanda: ma come mai tutto questo è stato possibile? Come mai si è potuto tacere così a lungo su crimini abominevoli, praticati da persone che dovrebbero invece essere “sale della terra e luce del mondo”? Quali baluardi sono stati abbattuti per determinare un tale calo nella disciplina ecclesiastica?

Sono domande che ogni cattolico può e deve porsi.

 

Un periodo di riflessione

Il primo a porsele è stato proprio Benedetto XVI che, a proposito degli scandali, ha voluto aprire per la Chiesa un “periodo di riflessione”, le cui linee generali egli stesso ha esposto in diversi pronunciamenti, come la Lettera pastorale ai cattolici d’Irlanda. In questa riflessione, il Romano Pontefice invita a non indietreggiare davanti alle domande scomode né alle verifiche di responsabilità, e a procedere “con coraggio e determinazione”.

Il giudizio sulla gravità del peccato è inappellabile. Il Papa parla di “crimini abnormi”, di “vergogna”, di “tradimento”, di “disonore”, di “danno immenso”. Questi crimini del clero, sentenzia, “hanno oscurato la luce del Vangelo a un punto tale cui non erano giunti neppure secoli di persecuzione”.

Le verifiche di responsabilità sono altrettanto chiare. Rivolgendosi ai sacerdoti e religiosi che si sono macchiati di questo peccato, il Papa non lesina parole: “Avete tradito la fiducia riposta in voi da giovani innocenti e dai loro genitori. Dovete rispondere di ciò davanti a Dio onnipotente, come pure davanti a tribunali debitamente costituiti. Avete perso la stima della gente e rovesciato vergogna e disonore sui vostri confratelli. Quelli di voi che siete sacerdoti avete violato la santità del sacramento dell’Ordine Sacro. (...) Un grande danno è stato perpetrato alla Chiesa e alla pubblica percezione del sacerdozio e della vita religiosa. Vi esorto ad esaminare la vostra coscienza, ad assumervi la responsabilità dei peccati che avete commesso e ad esprimere con umiltà il vostro rincrescimento".

Leggiamo parole altrettanto schiette nei confronti dei Ves-covi: “Non si può negare che alcuni di voi e dei vostri predecessori avete mancato, a volte gravemente, nell’applicare le norme del diritto canonico. (...) Seri errori furono commessi nel trattare le accuse. (...) Furono commessi gravi errori di giudizio e che si sono verificate mancanze di governo. Tutto questo ha seriamente minato la vostra credibilità ed efficacia”.

 

Alla radice del problema

Ma, come in ogni riflessione, non basta puntare il dito contro i colpevoli richiamandoli alla conversione. Bisogna andare alla radice del problema per risolverlo.

I crimini di pedofilia omosessuale, troppo ripugnanti, troppo frequenti e troppo a lungo coperti da silenzi e da complicità perfino ad alto livello, non possono essere frutto di semplici fattori circostanziali. Questa incresciosa situazione, secondo un Comu-nicato del Vaticano, è attribuita dal Papa alla “più generale crisi della fede che colpisce la Chiesa”.

La domanda sorge naturale: come mai la fede nella Chiesa è entrata in crisi? È sempre Benedetto XVI che risponde: “Negli ultimi decenni la Chiesa ha dovuto confrontarsi con nuove a gravi sfide alla fede scaturite dalla rapida trasformazione e secolarizzazione della società. (…) Fu anche determinante in questo periodo la tendenza, anche da parte di sacerdoti e religiosi, di adottare modi di pensiero e di giudizio delle realtà secolari senza sufficiente riferimento al Vangelo”.

La crisi di fede è stata, dunque, provocata dalla contaminazione con lo spirito del tempo, vale a dire della modernità rivoluzionaria. In passato, Benedetto XVI aveva già più volte denunciato un elemento centrale di questa modernità, il relativismo, cioè il rifiuto di differenziare fra vero e falso, bene e male, bello e brutto: “Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”.


Adesso il Papa denuncia un’altra componente, molto più profonda, di questo relativismo: l’atteggiamento molle e cedevole che ne costituisce l’anima. Usando le categorie insegnateci da Plinio Corrêa de Oliveira, diremmo che si tratta dell’aspetto “tendenziale” del relativismo. “Devo dire  — afferma il Papa — che noi cristiani, anche negli ultimi tempi, abbiamo spesso evitato la parola penitenza, che ci appariva troppo dura”.

Ora, la repressione del peccato è, per definizione, “dura”, come anche le misure disciplinarie per punirlo. Evitando ogni “durezza” nel trattare i preti omosessuali e pedofili, le autorità ecclesiastiche altro non hanno fatto che esacerbare il problema, dando l’impressione che anche nella Chiesa tutto fosse permesso. Lo stesso Pontefice rimprovera i Vescovi irlandesi per questa mollezza: “In particolare, c’è stata una tendenza, dettata da retta intenzione ma errata, ad evitare approcci penali nei confronti di situazioni canoniche irregolari”.

Questo venir meno della fermezza nella Chiesa è capitato in un momento storico in cui sarebbe servito esattamente il contrario. E ciò per una regola fondamentale della vita spirituale: l’agere contra.

 

Una regola d’oro l’agere contra


La vita spirituale non è sempre facile. Anzi. Bisogna, ad ogni momento, saper discernere le vie che il Signore vuole che seguiamo, e che possono variare a seconda delle circostanze. Ma, come possiamo discernere queste vie? Nei suoi celebri Esercizi Spirituali, Sant’Ignazio di Loiola ci dà una regola d’oro: “dobbiamo fare, per diametrum, il contrario della tentazione”. È la regola nota come “agere contra”.

Bisogna sempre contrastare le nostre cattive inclinazioni. Se siamo propensi all’iracondia, dobbiamo meditare sulla mitezza di Nostro Signore; se, invece, propendiamo all’indolenza, gioverà contemplare la Sua collera divina. In ogni caso, si tratta di applicare il correttivo adatto alle nostre debolezze.

Allo stesso modo, bisogna sempre combattere la tentazione che, concretamente, il demonio ci propone: se egli vuole gettarci nell’accidia, dobbiamo riempirci di entusiasmo; se, invece, ci invoglia ad un’eccessiva giocondità, dobbiamo desiderare rigore e serietà.

Storicamente, la Chiesa ha sempre applicato con superiore sapienza questa regola. Quando, per esempio, si è trattato di civilizzare i popoli nordici, contrastando la loro barbarie, la Chiesa li ha chiamati alla contemplazione del bello e al desiderio della perfezione in ogni campo. Quando invece, nell’apice del Medioevo, questa voglia di splendore rischiava di trasformarsi in mondanità, la Chiesa ha favorito uno spirito di austerità, come quello proposto da S. Bernardo e da S. Francesco d’Assisi.

La Chiesa applicò questa regola nel Concilio di Trento (1545-1563), dal cui operato si evince chiaramente l’intento di contrastare non solo le dottrine protestanti ma anche lo spirito che serviva loro di nutrimento.

Contro la negazione della Presenza Reale, il Concilio rispose non solo con precise definizioni teologiche, ma anche con un’esaltazione del Santissimo Sacramento che, attraverso processioni, adorazioni e altre celebrazioni, inculcava “tendenzialmente” la consapevolezza che nell’Ostia c’è veramente il Divino Salvatore. Contro il caos liturgico introdotto dalle sette protestanti, il Concilio rispose con una revisione del Breviario e del Messale romano, e la conseguente uniformità liturgica nella Chiesa occidentale: ovunque si andava, la liturgia era una, come una era la Chiesa.

Contro le tendenze ugualitarie tipiche delle correnti protestanti, il Concilio rispose con una rinnovata coscienza dell’autorità del Papa e della Curia romana. Contro il lassismo, tipicamente rinascimentale, che si era insinuato nel clero, il Concilio rispose con una rigorosa riforma dei seminari e della disciplina sacerdotale. Parallelamente, il Conci-lio favorì stili architettonici, artistici e musicali che inculcavano uno spirito opposto a quello di Lutero e di Calvino.
In altre parole, contro la cosiddetta Riforma protestante — il male dell’epoca — la Chiesa rispose con una Contro-Riforma che affrontò il problema a 360°: dal campo teologico a quello liturgico, culturale, artistico e via dicendo. Questo colpo di timone fu inoltre accompagnato da una grande fioritura di santi. Basti ricordare S. Pio V, S. Carlo Borromeo, S. Roberto Bellar-mino e S. Filippo Neri, per parlare solo dell’Italia.

In ogni epoca, il male assume caratteristiche proprie che richiedono, a contrario sensu, un’apposita pastorale per contrastarlo. È l’applicazione concreta del principio ignaziano dell’agere contra.

 

Ugualitarismo e libertinaggio

Nel XX secolo giunge all’auge il processo storico di scristianizzazione che, dalla caduta del Medioevo e attraverso successive e ben definite tappe, sta portando l’Occidente e il mondo intero verso indirizzi diametralmente opposti a quelli della Fede. Già denunciato da vari Papi, questo processo è stato magistralmente esposto dal prof. Plinio Corrêa de Oliveira nel suo capolavoro «Rivoluzione e Contro- Rivoluzione».

Due nozioni concepite come valori metafisici esprimono adeguatamente lo spirito di questa vera e propria Rivoluzione: uguaglianza assoluta, libertà completa. Nel secolo XX la metafisica ugualitaria della Rivoluzione si manifesta in molti modi:

— una crescente ostilità ad ogni forma di gerarchia;
— una crescente proletarizzazione dei costumi e dei modi d’essere;
— una crescente desacralizzazione di tutti gli aspetti della vita, che diventa sempre più pragmatica, materialista, laica.

A sua volta, la metafisica liberale della Rivoluzione si manifesta nella graduale demolizione di ogni regola morale e perfino di ogni convenzione sociale, il tutto servito da un atteggiamento molle e cedevole che vede ogni censura al male come un attentato alla libertà individuale. Ne è esempio la “rivoluzione sessuale” degli anni ‘60.

Il principio dell’agere contra avrebbe richiesto come risposta una pastorale atta a contrastare specificamente questo cattivo spirito nel suo duplice aspetto ugualitario e libertario. Ecco come descrive Plinio Corrêa de Oliveira le sue possibili linee maestre:

“Un profondo rispetto dei diritti della Chiesa e del Papato e una sacralizzazione, in tutta l’ampiezza possibile, dei valori della vita temporale, il tutto in opposizione al laicismo, all’interconfessionalismo, all’ateismo e al panteismo, così come alle loro rispettive conseguenze. Uno spirito di gerarchia che segni tutti gli aspetti della società e dello Stato, della cultura e della vita, in opposizione alla metafisica ugualitaria della Rivoluzione. Una cura costante nello scoprire e nel combattere il male nelle sue forme embrionali o nascoste, nel fulminarlo con esecrazione e con marchio d’infamia, e nel punirlo con fermezza inflessibile in tutte le sue manifestazioni, e particolarmente in quelle che attentano all’ortodossia e alla purezza dei costumi, il tutto in opposizione alla metafisica liberale della Rivoluzione e alla sua tendenza a dare libero corso e protezione al male”.


Dallo scontro al dialogo

Purtroppo, nel secolo XX si fa largo nell’ambiente cattolico, fino a diventare quasi egemonico, un approccio diametralmente opposto, ovvero quello d’una acritica “apertura ai segni dei tempi”. Dallo scontro con la modernità rivoluzionaria si passa al dialogo, dal dialogo all’accettazione, dall’accettazione al cedimento.

A livello dottrinale questo cedimento si è manifestato nelle nuove scuole teologiche che cercavano di “parlare il linguaggio dello spirito del tempo”, come si legge nel Programma dei modernisti, stilato nel 1907 da Ernesto Buonaiuti. Ed ecco il Modernismo, la Nouvelle Théologie, la Teologia della liberazione e via di seguito. Ma, seguendo le linee di analisi proposte da Benedetto XVI, più che le manifestazioni dottrinali di questo cedimento, ci preme rilevarne quelle tendenziali.

Il secolo XX è stato quello della “secolarizzazione”, cioè della crescente estromissione di ogni elemento che potesse rimandare a qualcosa di superiore e trascendente, al sacro. Si parlava della “morte di Dio”. Per i partigiani dell’apertura ai segni dei tempi, invece di lottare contro questa secolarizzazione, la Chiesa vi si sarebbe dovuta adattare.

Frutto di questo approccio è stato il crescente silenzio sugli aspetti più prettamente soprannaturali della religione, e la loro sostituzione con l’impegno sociale e umano. Le chiese, una volta veri e propri monumenti alla Fede, dove tutto portava alla preghiera e alla contemplazione, diventano simili agli edifici civili dell’architettura contemporanea, superandoli perfino in bruttezza. Il Santo Sacrificio della Messa perde la sua solennità e diventa un “convivio comunitario”.

La liturgia è sempre più scialba. I paramenti sacri, che dovrebbero tradurre in termini visivi lo splendore dell’atto liturgico, diventano banali. Si abbandona la musica sacra per quella mondana. I sacerdoti, una volta contraddistinti non solo dal tradizionale abito talare ma anche da tutto un portamento che accentuava la sacralità della loro persona, tendono a mimetizzarsi con l’ambiente circondante fino a perdere l’identità.

Parallelamente, penetrando in ambienti di Chiesa, il liberalismo provoca un vistoso calo nella disciplina ecclesiastica. Nei seminari si abbandona l’abito talare, il cerimoniale, il silenzio, la clausura, il divieto di amicizie femminili, il divieto di frequentare certi ambienti e un lungo eccetera. In una parola, ci si “aggiorna”. Elemento importante di questo aggiornamento era un atteggiamento “sensibile” e “caritatevole” nei confronti del peccato, specie quello carnale, per il quale si evitava di fulminarlo con la dovuta durezza.

Ricca dell’esperienza di duemila anni, la Chiesa aveva sempre circondato il giovane seminarista, e poi il sacerdote, con tutt’una serie di paletti che, più che arbitrari divieti, costituivano vere e proprie garanzie per la sua personale santificazione e per il tranquillo svolgimento del suo ministero.

Esistevano norme molto precise che regolavano non solo i rapporti con l’altro sesso, ma anche con i confratelli. Ogni infrazione era punita, sia per la malignità del fatto in sé, sia soprattutto per il decadimento che esso poteva impostare. Concretamente, il minimo sospetto di tendenze omosessuali implicava ipso facto la radiazione del seminarista, oppure il ritiro del sacerdote in strutture religiose appropriate.

Tutto questo è venuto meno, come insegna il Papa, per causa dell’adozione di modi di pensiero e di giudizio improntati al relativismo e al liberalismo imperanti. E le conseguenze sono oggi alla vista di tutti...


Un rinnovato spirito di militanza

Qual è la soluzione? L’ha indicata, già nel 1984, l’allora cardinale Joseph Ratzinger nel celebre «Rapporto sulla Fede»: “Va affermato a chiare lettere che una reale riforma della Chiesa presuppone un inequivocabile abbandono delle vie sbagliate che hanno portato a conseguenze indiscutibilmente negative”.

A livello dottrinale, la soluzione passa per l’abbandono di quelle forme filosofiche e teologiche che tendono ad appannare la distinzione fra vero e falso, buono e cattivo, bello e brutto. Bisogna affermare e proclamare che esistono verità assolute e valori non negoziabili, ripristinando, di conseguenza, anche una morale che ne tenga conto.
Più profondamente, a livello “tendenziale”, la soluzione passa per l’abbandono dello spirito cedevole e possibilista che ha cagionato l’irruzione del relativismo in seno alla Chiesa, ed il conseguente ripristino di quella caratteristica della Chiesa così importante da costituire una delle sue definizioni: la militanza.


Militanza, vale a dire quell’atteggiamento per il quale il cristiano, consapevole dell’essenziale contraddizione fra verità e errore, fra bene e male, fra bellezza e bruttezza, assume come elemento integrante del suo essere cristiano l’accettazione dei primi e il rigetto dei secondi, l’amore per i primi e l’odio contro i secondi, la decisione di difendere i primi contrastando i secondi. Questo come un imperativo impostogli dalla Fede.

Ma ciò presuppone una profonda conversione di anima, proprio come quella richiesta dalla Madonna di Fatima, che il Pontefice ha venerato lo scorso maggio recandosi nel suo santuario in Portogallo.