Intervista all’economista Carlos del Campo
“La Teologia della liberazione causa miseria in America Latina”
Laddove sono stati applicati, i principi della Teologia della liberazione hanno provocato miseria e oppressione. Ne abbiamo parlato con l’economista cileno Carlos del Campo. Laureato all’Università di California in Berkeley, professore emerito di economia presso la Pontificia Università Cattolica del Cile, il dott. Del Campo è autore di numerosilibri e saggi sulla riforma agraria in America Latina
Lei, dottor del Campo, pensa che la Teologia della liberazione – sebbene epurata da concetti marxisti e talvolta dalla giustificazione della violenza, pur tuttavia fermamente ancorata alle idee di lotta di classe e di redistribuzione egualitaria della ricchezza – possa risolvere i problemi di povertà esistenti nel mondo, in particolare nell’America Latina?
È un errore immaginare che possa essere pacifico un movimento costruito sull’idea che, per raggiungere una società più giusta, siano condizioni necessarie la lotta di classe e la distribuzione egualitaria della ricchezza.
La lotta di classe e il conflitto sociale sono necessariamente connessi fra loro. L’una non può esistere senza l’altro come metodo di azione politico-sociale. A ciò si aggiunga che la violenza è un mezzo indispensabile per imporre un “ordine” sociale ugualitario. Per questa ragione l’ugualitarismo, essendo contrario allo stesso ordine naturale delle cose, può nascere ed esistere solo sotto l’impero della violenza. La storia ce lo insegna ad nauseam. Dunque, una Teologia della liberazione radicata nella lotta di classe e nell’ugualitarismo, anche se si pretende pacifica, è di per se stessa contraddittoria e impercorribile.
Ciò premesso posso rispondere alla prima domanda. Immaginiamo la Teologia della liberazione nel suo aspetto frequentemente presentato come essenziale e basilare, ovvero “l’opzione preferenziale per i più poveri”, intesa come la presa di posizioni e di misure energiche miranti a diminuire la povertà. In tal senso, senza alcun dubbio, con la forza dell’esperienza di fatti concreti, si può asserire che la strada migliore, e forse l’unica, sia l’adozione di un sistema di economia di mercato basato su tre principi fondamentali: la proprietà privata, la libera iniziativa e l’azione sussidiaria dello Stato.
La piena vigenza di questi principi, basilari del vero ordine sociale, è la condizione necessaria per limitare e diminuire la povertà. Tuttavia, non è sufficiente. È indispensabile che anche la società sia imbevuta dallo spirito e dalla morale cristiani, sorgenti dell’autentica giustizia e carità.
L’esperienza in America Latina lo dimostra. I blocchi di povertà esistenti in diversi paesi del Continente non hanno niente a che fare con l’economia di mercato. Anzi, la loro origine si trova proprio in politiche implementate in contrasto con l’economia di mercato. Un caso fra i più emblematici è la politica promossa dalla CEPAL (Commissione Economica per l’America Latina, organismo delle Nazioni Unite, ndr), negli anni Quaranta e Cinquanta, che poneva in essere un processo di industrializzazione forzata al fine di produrre beni che sostituissero quelli importati. Questa politica penalizzò i settori primari, specialmente l’agricoltura, che all’epoca dava lavoro alla maggioranza della popolazione meno qualificata e di minor reddito.
Allo stesso tempo, si favoriva una minoranza più qualificata, aumentandone i guadagni. Il risultato fu un aumento della disuguaglianza nella distribuzione del reddito, favorendo l’aumento delle sacche di povertà.
Le riforme di struttura, come la Riforma agraria, hanno risolto efficacemente i problemi di povertà in alcuni paesi dell’America Latina?
I dati oggettivi rivelano esattamente il contrario. Le Riforme agrarie e alcune esperienze di socialismo di Stato realizzate in America Latina parlano chiaro. I casi più caratteristici sono Cuba e Cile, quest’ultimo durante il governo di Salvador Allende. La povertà a Cuba sotto Fidel, divenuta isola-prigione, è drammatica. La maggioranza della popolazione vive affastellata in catapecchie e assoggetta ad un feroce razionamento di derrate alimentari. Per incrementare i guadagni molte famiglie si sentono costrette a far prostituire le figlie con gli spregiudicati turisti stranieri. Carne, pesce, latte ecc. sono articoli di lusso per la maggioranza dei cubani. Per averne un’idea citerò qualche dato.
Nel 2011 lo stipendio medio mensile di un cubano era di 460 pesos, equivalenti a 21,03 dollari americani, ma il 43% si doveva accontentare di una somma inferiore. Il cesto di prodotti razionati costava 17,40 pesos, ma apporta solo il 41,2% delle calorie minime raccomandate. Per raggiungere questo minimo è necessario incorrere in una spesa addizionale di 403,00 pesos. Dal mensile avanzano 40,00 (equivalente a US$1,83!) con i quali pagare i servizi base come acqua, elettricità, gas, trasporto, prodotti per l’igiene personale e della casa, più tutte le spese con i dipendenti. Missione impossibile!
La soglia di povertà di una persona si colloca in 841,40 pesos mensili. Se lo stipendio medio raggiunge solo 460,00 pesos, è facile immaginare l’estensione e la gravità della povertà a Cuba e il grado di difficoltà per la sopravvivenza. (Dati tratti da «La Pobreza en Cuba», autore Raúl A. Sandoval González, economista e professore alla Facoltà di Economia dell’Università dell’Avana, pubblicati in www.progreso-semanal.com, 28/03/2012).
In Cile, due anni dopo la salita al potere dell’Unidad Popular di Allende, la situazione sociale ed economica si palesò in tutta la sua dolorosa tragicità. Il PIL pro capite era diminuito rispettivamente del -2,9% e del -7,1% negli ultimi due anni del governo Allende. Come conseguenza della Riforma Agraria, negli anni 1971-72-73 la produzione agricola e di bestiame ebbe un crollo del -1,8%, -7,4% e -10,3% rispettivamente. Emersero gravi problemi di approvvigionamento di beni essenziali. Le file, le lunghe attese, erano il dramma quotidiano della popolazione, specialmente della più povera che non aveva possibilità di fare acquisti al mercato nero. L’inflazione raggiunse i livelli allarmanti del 500% su base annua.
Ossia, tre anni di governo in conformità alle prediche della Teologia della liberazione avevano condotto il Cile al caos economico e sociale.
La lotta di classe, promossa da personaggi quali Chávez (Venezuela) e Morales (Bolivia), ha realmente risolto i problemi di povertà nei loro rispettivi paesi?
I dati indicano che le performance di Venezuela e di Bolivia, in generale, sono al di sotto della media latinoamericana. Secondo informazioni della summenzionata CEPAL pubblicate su “Panorama social de América Latina 2011”, la media annua di crescita della regione è stata del 2,3% nel periodo 2000-2008, -3,1% nel 2009, - 4,9% nel 2010. Nello stesso arco temporale, i valori del Venezuela sono stati 2,6%, -4,8% e -3,0% rispettivamente. Mentre in Bolivia sono stati dell’1,7%, 1,6% e 2,4%.
In rapporto al fenomeno della povertà, i dati non sono migliori. L’America Latina nell’insieme ha registrato una diminuzione significativa della povertà negli ultimi 20 anni. Nella decade degli anni Novanta circa il 45% della popolazione era ritenuto povero; nel 2010 questo valore è calato intorno al 22%. In Bolivia invece il calo è stato molto meno significativo: dal 55% al 60% degli anni Novanta e al 54% del 2007. Nel caso del Venezuela, la povertà negli anni '90 raggiungeva valori intorno al 40%, al 50%, ed è diminuita al 28% nel 2010; una performance comunque inferiore alla media dell’America Latina.
Sul versante opposto si osservano risultati ben superiori. In Cile, per esempio, la povertà è diminuita dal 30% superggiù degli anni Novanta all’11% nel 2009. Dal canto suo, in Perù la povertà è diminuita da un valore intorno al 48% sempre negli anni '90 al 31% nel 2010.
Si sa che i dati su povertà e distribuzione del reddito in genere sono soggetti a distorsioni non trascurabili per via delle difficoltà pratiche di ottenere informazioni affidabili di reddito e altre varianti. A ciò si aggiungono certe modifiche operate nei metodi di calcolo in questi ultimi tempi. Tuttavia una cosa sembra sicura: la rivoluzione socio-economica promossa dai teologi della liberazione, e in alcuni paesi dell’America Latina messa in atto, non ha raggiunto i risultati previsti dai suoi mentori.
Ciò non può sorprendere nessuno. I casi storici di fallimento delle politiche economiche di stampo statalista e interventista abbondano. Bastino due esempi: primo, la caduta del Muro che ha scoperto la miseria in cui vivevano i paesi sottomessi al giogo del socialismo e del comunismo. Secondo, un esempio di grande attualità, l’attuale crisi dell’Europa che mostra ancora una volta le conseguenze di una politica economica a forte intervento statale praticata da alcuni paesi del Continente, oltre alle imposizioni dell’Unione Europea. Spicca, in questo senso, l’imposizione della moneta unica senza prendere in considerazione la realtà economica, politica e culturale dei vari paesi.
Per i teologi della liberazione, raggiungere un livellamento ugualitario è persino più importante del superamento della povertà. Donde, per esempio, certi elogi sperticati a Cuba, dove anche se tutti sono poveri, godono, secondo loro, dell’uguaglianza. Pensa sia questa una visione cristiana della società? No, evidentemente. L’uguaglianza delle classi è contraria all’ordine naturale creato da Dio. A questo riguardo, cito quanto dice testualmente nella sua opera «Rivoluzione e Controrivoluzione» il grande pensatore cattolico Plinio Corrêa de Oliveira: “San Tommaso insegna che la diversità delle creature e la loro disposizione gerarchica sono un bene in sé, perché così risplendono meglio nella creazione le perfezioni del Creatore. E dice che, tanto fra gli angeli che quanto fra gli uomini, nel paradiso terrestre come in questa terra di esilio, la Provvidenza ha stabilito la disuguaglianza. Quindi odiare per principio ogni e qualsiasi disuguaglianza equivale a porsi metafisicamente contro gli elementi per la migliore somiglianza fra il Creatore e la creazione, significa odiare Dio”.
In proposito possiamo pure ricordare un brano dell’enciclica “Ad Petri Cathedram” di Giovanni XXIII, del 29 giugno 1959: “È inoltre assolutamente necessario restaurare anche fra le varie classi sociali la stessa concordia che si desidera fra i popoli e le nazioni. Se ciò non avverrà, si avranno, come già si vedono, vicendevoli odi e discordie, donde potranno nascere tumulti, dannosi rivolgimenti e talvolta anche eccidi, cui si aggiungerebbero il progressivo estenuarsi della ricchezza e la crisi della pubblica e privata economia. (…) Chi osa quindi negare la disparità delle classi sociali, contraddice all’ordine stesso di natura. Chi poi avversa questa amichevole e inderogabile cooperazione tra le classi stesse, tende senza dubbio a sconvolgere e a dividere l’umana società, con grave turbamento e danno del bene pubblico e privato. (…) Possono bensì le singole classi e le varie categorie di cittadini tutelare i propri diritti, purché ciò si faccia legittimamente e non con la violenza, senza invadere gli altrui diritti, anch’essi inderogabili. Tutti sono fratelli; pertanto tutte le questioni devono comporsi amichevolmente con mutua fraterna carità”.
Torno infine a citare Plinio Corrêa de Oliveira in un’altra sua opera «Nobiltà ed élites tradizionali analoghe»: “L’opzione preferenziale per i nobili e quella per i poveri non si escludono fra loro, come insegna Giovanni Paolo II: ‘Sì, la Chiesa fa sua l’opzione preferenziale per i poveri’. Una opzione preferenziale, si badi, non dunque un’opzione esclusiva o escludente, perché il messaggio della salvezza è destinato a tutti”.
Servano queste parole di chiarimento per coloro che, mossi dallo spirito della lotta di classe, immaginano l’esistenza di una conflittualità inevitabile fra nobile e povero.