Teologia della liberazione
Il caso della ex-Pontificia Università Cattolica del Perù solleva, come nello sfondo di un quadro, il problema della cosiddetta Teologia della liberazione, recentemente tornata alla ribalta anche per via di alcune dichiarazioni di alti prelati in Italia. Forse da noi non perfettamente conosciuta, la Teologia della liberazione ha invece avuto un ruolo preponderante nella recente storia latinoamericana. Ecco un dossier che, in modo necessariamente sintetico, vi introdurrà nei meandri di questa corrente rivoluzionaria, condannata dal Vaticano nel 1984.
Le dottrine che poi avrebbero costituito la Teologia della liberazione sono state discusse nel corso di vari incontri internazionali negli anni Sessanta. Tra essi particolarmente emblematico è quello tenutosi a Cuba nell’agosto 1965 sotto l’egida di Fidel Castro.
L’espressione, già in uso dal teologo della liberazione uruguaiano Juan Luis Segundo dal 1959, è stata sdoganata dal sacerdote peruviano Gustavo Gutiérrez Merino, ritenuto perciò il “padre fondatore” della corrente, nel corso di un convegno dell’ONIS (Oficina Nacional de Información Social) a Chimbote, Perù, nel luglio 1968. Gutiérrez in pratica, ampliò e aggiornò la propria tesi di laurea che, sotto l’egida di Henri de Lubac, aveva presentato alla facoltà gesuita di Lyon-Fourvière e ne trasse un libro. Che col titolo «Una Teología de la Liberación. Perspectivas», divenne la pietra miliare della corrente. “Questo libro — commenta Segundo — è stato come un battesimo. Ma il bimbo era già alquanto cresciuto”.
Siamo alla vigilia della I Assemblea Generale del CELAM (Conferenza Episcopale Latino Americana) a Medellín, Colombia, in cui gli esponenti della corrente liberazionista ebbero un ruolo preponderante. La presenza di Papa Paolo VI conferì ulteriore autorevolezza all’incontro, che da più parti cominciò ad essere chiamato “il Vaticano II della Chiesa latino-americana” che avrebbe attuato una “svolta copernicana” nel continente.
L’assise è infatti considerata un evento spartiacque nella storia della Chiesa in America Latina, che avrebbe finalmente rotto col suo passato “medievale” lanciandosi nell’avventura progressista. Al di là del vero tenore dei documenti, lo “spirito di Medellín” comincia a soffiare fortissimo, spostando vasti settori ecclesiastici sempre più a sinistra.
Questo ‘68 ecclesiastico si innestava, dunque, in un processo politico rivoluzionario che, sotto l’influsso di Cuba, vedeva un certo numero di paesi latino-americani passare all’orbita sovietica. Nei paesi con governi non comunisti la Teologia della liberazione spingeva invece i cattolici all’opposizione, perfino armata.
In Colombia, per esempio, emulando Camilo Torres Restrepo, un certo numero di sacerdoti si unirono al gruppo guerrigliero ELN (Ejército de Liberación Nacional), autodefinitosi “marxista-leninista-cristiano” (sic).
È in questo clima surriscaldato che viene alla luce, nel 1971, il capolavoro di Gustavo Gutiérrez «Una Teología de la Liberación. Perspectivas».
“Fare teologia”
Quali sono i cardini di questa teologia?
Rovesciando il metodo teologico, che parte dalla Rivelazione contenuta nelle Sacre Scritture e nella Tradizione per dedurre principii poi applicati alla realtà, i teologi della liberazione partivano dall’analisi di situazioni concrete, nella fattispecie le lotte rivoluzionarie in America Latina. “La teologia della liberazione — dice Gutiérrez — è un tentativo di comprendere la fede partendo dalla prassi storica concreta, liberatrice e sovversiva, dei poveri di questo mondo”.
Il rovesciamento avveniva col seguente raziocinio:
— la Rivelazione pubblica non si è conclusa con la morte dell’ultimo Apostolo, bensì continua lungo la storia e, anzi, nella storia (immanentismo storicista);
— concretamente, Dio si rivela in quei fenomeni che sono all’avanguardia del processo storico, vale a dire nei movimenti rivoluzionari (socialismo, comunismo), eufemisticamente chiamati “movimenti di liberazione”;
— per analizzare questi fenomeni serve uno strumento di analisi politico e sociologico;
— oggi, il miglior strumento di analisi è il marxismo.
“Il marxismo, come cornice teorica di tutto il pensiero filosofico contemporaneo non può essere superato”, asseriva P. Gustavo Gutiérrez. “Oggi, per la teologia della liberazione — spiegava a sua volta Luis Alberto Gomes de Souza — non esiste strumento migliore che il marxismo, che è immerso nella praxis della realtà”.
I teologi della liberazione adottavano quindi l’analisi marxista, la applicavano ai fenomeni sociali e politici, salvo poi spacciare le conclusioni — ovviamente condizionate dal metodo di analisi — come “teologia”...
D’altronde, la Teologia della liberazione non si presentava come una scuola di pensiero (questo sarebbe un “intellettualismo” assolutamente da rigettare) bensì come una “praxis”, e concretamente una praxis rivoluzionaria. “La teologia della liberazione suppone una situazione rivoluzionaria”, spiegava il liberazionista Gregory Baum. “Ciò che intendiamo per teologia della liberazione è il coinvolgimento nel processo rivoluzionario”, sentenziava Gustavo Gutiérrez.
Ecco perché i teologi della liberazione parlano di “fare teologia”, vantando il “primato della praxis sulla riflessione”, un concetto di chiara derivazione marxista (l’undicesima «Tesi su Feuerbach»). “Prima di fare teologia dobbiamo lottare per la liberazione — scrivono i fratelli Leonardo e Clodovis Boff — Il primo passo della teologia è il coinvolgimento nei processi di liberazione degli oppressi”.
La simbiosi col comunismo
Mossi dal desiderio di “fare teologia” partecipando ai processi di “liberazione”, i seguaci di questa corrente cominciarono a impegnarsi nelle lotte politiche della sinistra, a volte come protagonisti a volte come fiancheggiatori. Non pochi giunsero perfino a partecipare alla lotta armata. La manovra riusciva loro facile, visto che condividevano con Mosca lo stesso scopo: l’instaurazione del comunismo.
“Comunismo e Regno di Dio sulla terra sono la stessa cosa”, affermava P. Ernesto Cardenal. “Troviamo i valori del Regno di Dio nel socialismo reale sovietico”, rincarava a sua volta frà Leonardo Boff.
Lo stesso Gustavo Gutiérrez era piuttosto esplicito: “Dobbiamo attuare una rivoluzione sociale che rompa lo status quo e introduca la nuova società, la società socialista”.
In questo modo il comunismo, che di per sé sarebbe rimasto un fenomeno marginale in America Latina, ha visto convergere nelle sue fila masse di cattolici, con l’esplicita o implicita connivenza di non pochi presuli. Rimarrà tristemente celebre nella storia, per esempio, la protesta, nel 1985, di ben diciassette vescovi brasiliani contro le misure disciplinari inflitte dal Vaticano nei confronti di Leonardo Boff.
Da parte sua, Mosca apprezzava molto questi “compagni di viaggio”. A conferma di ciò si contano a centinaia gli interventi a loro favore da parte di organi legati al Komintern.
Impossibile elencare, nell’angusto spazio di un articolo, i casi di simbiosi fra cattolici e comunisti. Basti menzionare il deciso appoggio della corrente liberazionista alle dittature filo-comuniste dei generali Juan Velasco Alvarado in Perù e Juan José Torres in Bolivia, nonché al governo marxista di Salvador Allende in Cile. Più recentemente, appoggiano Hugo Chávez in Venezuela, Evo Morales in Bolivia e Rafael Correa in Ecuador.
Non furono pochi coloro che giunsero alla lotta armata. È nota, per esempio, la partecipazione di cattolici nel MIR (Movimiento de izquierda revolucionaria) in Cile, nell’ELN (Ejército de liberación nacional) in Colombia, nei Tupamaros (Movimiento de liberación nacional) in Uruguay, nell’ALN (Aliança libertadora nacional) in Brasile, e via dicendo. Ma forse il caso paradigmatico è costituito dalla massiccia partecipazione di cattolici provenienti dalle comunità ecclesiali di base nella guerriglia sandinista, in Nicaragua, che nel 1979 ha rovesciato il governo instaurando una dittatura filo-sovietica.
Il governo sandinista era sostenuto da alcuni vescovi. Uno di loro, mons. Pedro Casaldáliga, vescovo di São Félix do Araguaia, in Brasile, partecipando ad una riunione con guerriglieri sandinisti non esitò ad indossare la loro divisa militare, dichiarando: “Vestito da guerrigliero mi sento parato da sacerdote. La guerriglia e la Messa sono la stessa celebrazione”.
In questo era appoggiato dal cardinale di San Paolo, Paulo Evaristo Arns, che incitava i cattolici brasiliani a trascorrere periodi di addestramento per la guerriglia in Nicaragua.