Quanto ferro! Deh quanto ferro!
Di Carlomagno i contemporanei hanno lasciato vividi ritratti. Ma forse nessuno mostra meglio l’invincibile forza di questo campione della Chiesa e della Civiltà cristiana come la descrizione di Notker Balbulus, abate del convento di San Gallo, in Svizzera, che verso l’anno 883 compilò la «Gesta Karoli Magni». Nell’ottobre 774, deciso a chiudere i conti con gli inquieti Longobardi, che avevano più volte attaccato Roma, Carlomagno varcò le Alpi su richiesta di Papa Adriano e strinse d’assedio la città di Pavia, dove si era rinchiuso il re Desiderio. Ecco la testimoninanza del monaco di San Gallo.
Oggero il danese, stato grande nel regno dei Franchi, si era rifuggito a re Desiderio. Quando intesero che il tremendo monarca [Carlo] si calava in Lombardia, essi due salirono sopra eccelsa torre, donde veder lontano e d’ogni parte; ed ecco da lungi apparire macchine di guerra, quante sarebbero bastate agli eserciti di Dario o di Cesare. Desiderio chiese ad Oggero: – Carlo è con quel grande stuolo? – No, rispose quegli. Poi vedendo innumera oste di gregari, raccolti da tutte le parti del vasto impero, il Longobardo disse ad Oggero: – Sicuramente Carlo si avanza trionfante in mezzo a quella folla. – Non ancora, né apparirà si tosto, rispose l’altro. – E che faremmo dunque ripigliò Desiderio inquieto, s’egli viene con maggior numero di guerrieri? – Voi lo vedrete qual’è allorché arriverà, ripeté Oggero, ma che fia di noi lo ignoro.
E mentre discorrevano, si mostrò il corpo delle guardie, che mai non conobbe riposo. A tal vista il Longobardo preso da terrore, esclamò: – Certo questa volta è Carlo! – Non, rispose Ogger, non ancora. Poi vengono dietro vescovi, abati, e chierici della cappella reale, e i conti. E Desiderio non potendo più né sopportare la luce del giorno, né affrontare la morte, grida singhiozzando: – Scendiamo, nascondiamoci nelle viscere della terra, lungi dal cospetto e dall’ira di sì terribile nemico! Oggero tremando, sapendo a prova la potenza e le forze di Carlo, disse: – Quando vedrete le messi agitarsi dall’orrore nei campi, il Po e il Ticino flagellar le mura della città coi loro fiotti anneriti dal ferro, allora potrete credere che Carlo arrivi.
Finito non aveva queste parole, che si cominciò a vedere da ponente come una nube tenebrosa sollevata da borea, che convertì il fulgido giorno in orride ombre. Ma accostandosi l’imperatore, il baglior di sue armi mandò sulla gente chiusa nella città una luce più spaventevole di quale si fosse notte. Allora comparve Carlo stesso, uomo di ferro, coperto la testa con morione di ferro, le mani da guanti di ferro, di ferro la ventriera, di ferro la corazza sulle spalle di marmo, nella sinistra un lancione di ferro ch’egli brandiva in aria protendendo la destra all’invincibile spada; il disotto delle cosce, che gli altri per agevolezza di montare a cavallo sguarniscono fin dalle coreggie, esso l’aveva circuito di lamine di ferro.
E che dirò degli schinieri? Tutto l’esercito li portava di ferro, non altro che ferro si vedeva sul suo scudo, del ferro aveva la forza e il colore il suo cavallo. Quanti precedevano il monarca, quanti gli venivano a lato, quanti li seguivano, tutto il grosso dell’esercito aveva armi simili, per quanto a ciascuno era dato. Il ferro copriva campi e strade, le punte di ferro sfavillavano al sole; il ferro, sì saldo, era portato da un popolo di cuore più saldo ancora. Il barbaglio del ferro diffuse lo sgomento nelle vie della città: – Quanto ferro! Deh quanto ferro! Fu il grido confuso di tutti i cittadini. La robustezza delle mura e dei giovani scosse di terrore alla vista del ferro, e il ferro confuse il senno dei vecchi. Ciò ch’io povero scrittore, balbetticante e sdentato, feci prova di dipingere in prolissa descrizione, Oggero lo vide d’una occhiata, e disse a Desiderio: – Ecco quello che voi cercavate con tanto affanno! E cascò come corpo morto.
(In Cesare Cantù, Storia Universale, Unione Tipografico-Editrice, Torino 1885, vol. IV, pp. 638-639)