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Natale siculo

 

di Francesca Bonadona

 

Sulle soavi note di un tradizionale motivo siciliano, accompagnato dal suono della cornamusa, si apre lo scenario candido del Natale in Sicilia, narrato dalla nonna che estende il suo sguardo in direzione di un braciere acceso.

Un tempo, il Natale era vissuto nella tradizione del focolare domestico. Posto al centro della casa vi era il presepe, simbolo della Sacra Famiglia e della vita nascente, una realtà impregnata di devozione patriarcale, tramandata di generazione in generazione. L’8 dicembre, giorno dell’Immacolata, o il 13 dicembre, festa di Santa Lucia, ogni membro della famiglia si prodigava con devozione a reperire il materiale necessario per realizzare u presepesu: strati di cotone, a rappresentare la neve, o su muschio fresco (u lippu), raccolto nei boschi.

Intorno alla capanna o alla grotta venivano disposti i pastori che rappresentavano i mestieri più diffusi nel paese, tra queste figure della tradizione siciliana è tipica quella di u zuinnaru (un uomo anziano ed infreddolito che si scaldava presso un focolare) o u spaventato (un uomo in atteggiamento di meraviglia per la nascita di Gesù).

Il presepe a partire dal XV secolo era realizzato all’interno delle chiese e poi, via via, nelle case dei nobili, dove i personaggi venivano realizzati con l’uso del corallo. Nel periodo barocco e rococò vennero adoperati vari materiali: avorio, madreperla, alabastro, conchiglie. Solo a partire dall’Ottocento il presepe, allestito presso le famiglie di modesta provenienza, era rappresentato da statuine in cartapesta rivestite di stoffa, in terracotta o legno e l’insieme era decorato da composizioni di mandarini, arance e limoni o da vischio, pungitopo (spinapulici) e agrifoglio.

La famiglia contemplava amorevolmente la bellezza di questo gioiello allestito nei focolari e per nove sere consecutive si recitavano le litanie cantate in latino e si intonavano le nenie natalizie. Le donne dicevano il rosario sedute attorno al braciere, a conca, dove si metteva un po’ d’incenso o un pizzico di zucchero per profumare l’ambiente.

Era tradizione nell’entroterra etneo, la recita dialettale dei mottetti natalizi che venivano cantati attorno al Presepe ed erano considerati pezzi di ammirevole bravura nel rievocare il lungo peregrinare di Giuseppe e Maria, alla ricerca di ospitalità.

I nonni raccontano che nei giorni della novena, il paese si svegliava molto presto per partecipare alla prima messa, era una occasione di festa che vedeva riuniti a turno le categorie dei lavoratori, i mastri di festa di ogni parrocchia; le donne d’Azione Cattolica patrocinavano nella loro matinata la categoria di appartenenza. Ogni mattina l’addobbo della chiesa era diverso, l’atmosfera densa di folclore vedeva l’esibizione degli zampognari, e fuori la banda e lo sparo delle bombe per solennizzare le funzioni. Alla vigilia, tutta la famiglia, estesa a parenti e amici, si riuniva attorno al presepe per onorare la venuta del Redentore.

Dopo la cena prenatalizia, alla mezzanotte nasceva nei presepi il Bambinello osannato dai canti e dopo seguiva la ninna nanna. I negozi erano aperti sin dalle prime luci del mattino, ma non vi era la corsa ai regali; i soli doni che ricevevano, con grande gioia, i bambini erano i biscottini fatti in casa con mandorle, fichi secchi e uvetta, così pure noccioline e castagne.

Ci si recava in chiesa per la solenne funzione, mentre per le strade ed i quartieri veniva acceso un falò detto u zuccu attorno al quale le persone si riunivano e si scambiavano gli auguri. Questa devozione natalizia, definita a zuccata, voleva simboleggiare il desiderio di far luce al Bambino col fuoco e di aiutare la Madonna ad asciugarne i panni. Secondo la tradizione la cenere dell’ultimo ceppo ricordava le imminenti amarezze che sarebbero sopraggiunte in futuro.