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Il disastro Allende

 

Tre anni di governo marxista di Salvador Allende (1970-1973) furono sufficienti a deteriorare l’economia cilena tanto da dover stabilire il razionamento alimentare, come in tempi di guerra. Questo era gestito dalle JAP (Juntas de Abastecimiento y Precios), sorta di soviet di quartiere che fungevano anche da commissari politici. Bastava essere sospettato di opposizione al regime per vedersi negata la tarjeta (tessera), e quindi condannato alla fame.

Nel periodo 1970-1973 il Pil cileno crollò da +8,0 a -4,3; l’inflazione aumentò dal 22,1% al 5.605,1% annuo; la variazione del reddito medio passò da +22,3 a -25,3 su base annua; il bilancio commerciale sprofondò da +114 a -112 milioni di dollari. Il numero dei cittadini sotto la soglia di povertà aumentò di ben il 33%, arrivando così a ciò che l’economista Carlos Guerrero, dell’Università del Cile, definisce “collasso totale”.

Anche la riforma agraria, fiore all’occhiello del governo Allende, fu varata per eliminare il latifondo, senza preoccuparsi degli indici di produttività. E, infatti, la produttività fu la vittima eccellente. Mentre il governo di Eduardo Frei (1964-1970) aveva mantenuto una crescita annuale del Pil agricolo pari al 2%, con Allende l’indice crollò al -4,6%, salvo poi risalire all’8,7% con Pinochet, che implementò politiche diametralmente opposte.

Ci fu l’esodo massiccio verso le città. Oggi, quarant’anni dopo, appena il 10% dei contadini beneficiati è rimasto nelle campagne. Il 90% ha dovuto emigrare per sopravvivere, ammassandosi nelle poblaciones.

L’ideologo del governo Allende, Jacques Chonchol, dovette ammettere: “Dal punto di vista sociale [la riforma agraria] è stata una grande cosa. Dal punto di vista della produzione, non è stata un granché”. Sarebbe stato più onesto dire che fu un disastro.