Il presepe napoletano
di Nicla Cesaro
La parola presepe significa mangiatoia, greppia. Dal 1200, la parola sta ad indicare le rappresentazioni a tutto tondo sia della Natività sia di scene successive, quali l’Adorazione dei pastori, dei Magi, ecc.
Il presepe a Napoli diventa, col passar dei secoli, sempre più lontano dalla rappresentazione pedissequa dell’evento storico, e più rappresentativo della condizione di vita del popolo napoletano. La sofferenza di Cristo, nato povero e adagiato in una greppia, raccoglie l’anelito di un popolo che aspetta la Redenzione. Per questo nel presepe napoletano compaiono tante figure, tante scene. Il popolo tutto, di tutte le classi sociali, commosso dall’umanità Divina e cosciente del Sommo Sacrificio a cui Cristo, fatto Uomo, si offre, è presente ed adora il Divino Neonato.
Nel 1205, a Napoli, nella chiesa di Santa Maria (che poi si chiamerà del Presepe) viene allestito il primo presepe di cui si ha notizia.
Nel 1324, ad Amalfi (Salerno), esisteva in casa d’Alagni una cappella del presepe mentre nel 1340 la regina Sancia dona alle Clarisse un presepe ligneo di cui rimane solo la Madonna Giacente (Museo di San Martino).
Nei secoli successivi la produzione presepiale fu varia ed affidata ad artisti di grande spessore. Si ricordano gli Alemanno (presepe ligneo di 41 statue, per la chiesa di San Giovanni Carbonara nel 1478), il Berverte (San Domenico Maggiore), il Rossellino (Sant’Anna dei Lombardi). Di grande spessore artistico il Marigliano, detto Giovanni da Nola, che scolpì un presepe ligneo, commissionatogli da Jacopo Sannazzaro in occasione della pubblicazione del poema “De partu Virginis”.
Alla fine del ‘500, in pieno clima di Controriforma, ad opera di Teatini, Francescani, Gesuiti e Scolopi, il presepe ebbe a Napoli un impulso notevolissimo, con scopo didattico liturgico, poiché erano presepi poliscenici e smontabili e rappresentavano diverse tappe della narrazione evangelica.
Nel XVIII secolo, l’arte presepiale napoletana conosce il suo massimo fulgore. Il fiorire delle arti, del diritto, della filosofia, della cultura tutta, rese Napoli una delle città più brillanti d’Europa e la presenza di sovrani capaci e ispirati da valori cattolici, diede impulso a questa consolidata tradizione. Già Filippo V, nel 1702, rientrò in Spagna da Napoli, portando con sé diverse figure di “pastori” e allestiva ogni anno, nel palazzo del Buen Retiro, il presepe. Suo figlio, Carlo III e sua moglie, Maria Amalia di Sassonia, ereditarono dal sovrano questa devota consuetudine e, spinti da grandissima fede religiosa e consigliati dal domenicano padre Rocco, favorirono il diffondersi dell’arte presepiale, dedicandosi essi stessi all’allestimento delle scenografie e alla confezione di statuine e vestiti.
Tale abitudine fu conservata, dopo la partenza di re Carlo per la Spagna, da suo figlio Ferdinando IV e da Ferdinando II, nelle regge di Caserta, Portici, Carditello, San Leucio, e dovunque i sovrani decidessero di trascorrere il Natale.
Naturalmente la corte imitò i sovrani e la connotazione del presepe diventò presto “cortese”. È vero che la simbologia presente nel presepe settecentesco indica il trionfo del cristianesimo sul paganesimo (il tempio in rovina vicino alla grotta, gli angeli che annunziano ai pastori la nascita del Signore, deposto nella mangiatoia, umile come loro) ma il presepe perse la valenza ieraticamente evocativa che aveva avuto finora.
Forse proprio per questo, un Dottore della chiesa, sant’Alfonso Maria de’ Liguori, nel dicembre del 1754 scrive il canto “Quanno nascette ninno” di cui scriverà anche una versione italiana il cui nome è “Tu scendi dalle stelle”.
Nelle strofe della versione in napoletano, accanto alla spontaneità con cui poteva avvenire l’adorazione della nascita di Cristo ad opera del popolo, vi è chiarissimo l’intento di affermare il prodigio della Nascita di Cristo. Nell’uso delle parole, il miracolo della Sua nascita è delineato non come un “risorgere” in un ciclo naturalistico continuo e necessario, ma è un evento storico, un atto d’AMORE voluto e libero. Il VERBO si è fatto Carne. Non è uno dei tanti dei della natura arcadica e bucolica che sembrava avere tanta presa nell’immaginario settecentesco. GESÙ è DIO. Ha creato la natura, si incarna e tutti, Madonna, Angeli, pastori intonano canti e nenie per questo DIO Bambino.
Nelle strofe del canto di sant’Alfonso, è chiaro l’intento morale, l’allocuzione al popolo che deve seguire l’esempio dei pastori e deve pentirsi dei peccati, per presentarsi al Dio Bambino Luce. Le ultime strofe del canto sono inequivocabili. Il peccatore è nero come la pece ma se pentito, la misericordia di Dio può ricondurlo alla luce, allo splendore morale.
Ed è per questo che gli ultimi quattro versi sono rivolti a Maria. Maria Speranza. Maria Madre. Madre di Dio fatto Uomo. Madre anche di noi uomini, peccatori.