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Il cristianesimo come argine all’irrazionalità

 

Emanuele Samek Ludovici*



Considerare i fenomeni come intrinsecamente dotati di senso, non dare spazio in essi a ciò che possa apparire come accidentale, sono cose queste che hanno sempre esercitato un forte fascino sugli intelletti filosofici. Chi si trova davanti al variare degli eventi, alle istituzioni in movimento, ai mondi che affiorano e svaniscono, cerca spontaneamente, se è un intelletto dotato, di conferire ad essi un senso che li possa spiegare. La tradizione filosofica, tra i tanti esempi possibili, ha in serbo nel suo repertorio, a questo proposito, il nome di Hegel. È nota la particolare mania con cui il grande filosofo di Tubinga affermava la necessarietà di ogni accadimento particolare: dalla penna del suo avversario alla introduzione della ghigliottina. Ciò che stava alla base dell’intendimento hegeliano era di far emergere dal fondo occulto della realtà il suo senso profondo, ma in modo tale che l’interpretazione dei fenomeni non fosse qualcosa di collocabile accanto ai fenomeni stessi, bensì la loro più autentica verità: la ghigliottina non è un effetto secondario del Terrore, ma la sua verità.

Ora, l’interpretazione della storia di tipo hegeliano ha un corrispondente, apparentemente simile ma in realtà molto diverso, nel campo della teologia cristiana. Simile, in quanto ogni corretta teologia della storia deve considerare gli eventi come intrinsecamente dotati di significato; diverso, in quanto nella concezione cristiana il bene vince, ma non necessariamente, nella storia. Questa visione lucida (e al tempo stesso agonale) della realtà ha preso forma sotto i nostri occhi in un libro la cui minore ambizione è di darci una fenomenologia della rivoluzione piuttosto che dello spirito, è compensata da una impressionante chiarezza (Plinio Corrêa de Oliveira, «Rivoluzione e Contro-Rivoluzione», Edizioni Cristianità, Cas. post. 185 Piacenza).

Secondo il De Oliveira alla radice dello spirito rivoluzionario c’è il sentimento che Sartre [Jean-Paul Charles Aymard (1905-1980)] considera costitutivo dell’uomo: il non tollerare di non essere Dio. Questo sentimento, che la Scrittura variamente denomina, ma che in ultima analisi è il peccato dell’orgoglio, è la radice ultima di ogni rivolta dell’uomo verso qualunque tipo di ordine, sia che sia religioso, morale o politico; dal rivoluzionario tutti sentiti come esclusivamente oppressivi. La salvezza dell’uomo allora non si fonda più sulla religione, sul legame dell’uomo con Dio, ma sul rifiuto di tale legame, sull’«eritis sicut dii» del prometeismo di ogni tempo.

La vera rivoluzione, dice il De Oliveira, è una ed è permanente, e (qui sta la possibile omologazione del suo discorso con quello hegeliano) i fatti storici che la impersonano non sono che momenti della sua vittoria o della sua sconfitta. Il carattere categorico e dogmatico della speranza rivoluzionaria è efficacemente riassunto dall’affermazione della futura società perfetta di cui le rivolte via via attuatesi nel corso della storia, dalle eresie pauperistiche medievali alla Comune di Parigi, non sono che pallide pre­fi­gu­ra­zioni. Purtuttavia questa speranza dell’uomo di essere lui Dio, osserva il De Oliveira, non riesce a sostituirsi senza contrasti all’autentico bisogno di infinito che è della religione. Accade allora che la rivoluzione diventi la nemica più irriducibile della religione.

È a questo punto che avviene il discernimento degli spiriti, perchè solo colui che è autenticamente religioso può cominciare, a partire da se stesso, la propria resistenza alla rivoluzione e diventare in senso metafisico e reale «contro-rivoluzionario». Ma con questa differenza però (qui sta il carattere antihegeliano e agonale del cristiano) che, anche se perde nella storia, egli ha in realtà vinto, perchè la sofferenza sopportata per attuare un valore superiore porterà all’individuo stesso una pienezza maggiore di quella negata nella sua esistenza terrena.

La criticità e il genuino anticonformismo dell’autore inducono a riflettere su uno dei punti più dibattuti dal pensiero politico contemporaneo, se cioè sia stata l’autorità a favorire l’emergere del fenomeno rivoluzionario o non invece il rifiuto dell’ordine, della misura, in ultima analisi, della propria condizione carnale.La risposta del De Oliveira non sembra essere ambigua: non è stata l’aggiunta di qualcosa a determinare l’ateismo politico (o, nei termini di Del Noce, l’assunzione della politica a religione), bensì il venir meno di qualcosa d’altro che ha lasciato l’uomo solo con il suo bisogno di infinito e incapace di soddisfarlo, se non mediante surrogati; ciò che sorprende, semmai, è osservare che nonostante il dilagare della rivolta contro la morale e la religione, l’uomo comune conservi ancora in sè una facoltà di giudizio sana e capace di far fronte alla notte della ragione.

Ciò che è venuto meno, dunque, è quello che conta, e che si tratta di riconquistare, e cioè il senso religioso. Se questa diagnosi sembra fin troppo nota, sembra dire l’autore, e non ha senso pretendere che gli altri ne tengano conto, vuol dire che non ci si è accorti che l’evidenza di un male torna alla fine in suo vantaggio: poichè tutti lo sanno, nessuno ha più il diritto di dirlo.

 

* Cattedratico di Filosofia morale presso l'Università degli Studi di Torino. Testo pubblicato in Avvenire, anno V, n. 299, 22-12-1972, p. 6.